Si chiamano Giovanni Guidi, Gabriele Evangelista, Francesco Ponticelli. Sono i nipotini di Gaslini, Rava, D’Andrea. Hanno meno di trent’anni. Ingaggiati dalle etichette più blasonate, suonano nei club più prestigiosi. Ecco perché armati di trombe, sax, clarinetti e pianoforti stanno conquistando il mondo
Si chiamano Giovanni Guidi, Gabriele Evangelista, Francesco Ponticelli. Sono i nipotini di Gaslini, Rava, D’Andrea. Hanno meno di trent’anni. Ingaggiati dalle etichette più blasonate, suonano nei club più prestigiosi. Ecco perché armati di trombe, sax, clarinetti e pianoforti stanno conquistando il mondo
Roma. Ci sono artisti che parlano con gli occhi, con le mani, con la sola presenza. Musicisti che il palcoscenico trasforma in giganti, anche se hanno solo vent´anni. Nella vita di tutti i giorni possono anche essere piccoli e magri, timidi e impacciati, provinciali e poco inclini al glamour, ma a contatto con lo strumento e il pubblico diventano audaci e creativi, spavaldi e intraprendenti. Sono quelli che durano, perché stabiliscono un feeling, lasciano un segno, non li dimentichi. E non sono solo pop singer. Ci sono jazzisti, come Keith Jarrett, che hanno il carisma di Hendrix e si sono conquistati una credibilità e un rispetto che va al di là delle mode e delle generazioni. Come in Italia Enrico Rava, trombettista che è l´orgoglio del nostro jazz, o Stefano Bollani, pianista versatile e sorprendente che ha scalato le classifiche pop con la Rapsodia in Blue di Gershwin incisa con Riccardo Chailly (la coppia ora bissa con Ravel, Weill, Stravinsky e De Sabata raccolti in un album, Sounds of the 30s, appena pubblicato).
Ma una nuova generazione – i nipotini di Gaslini, Rava e D´Andrea; i pupilli di Fresu, Di Battista, Bollani, Bosso, Battaglia e Petrella – sta passando all´attacco. L´annuale referendum di Musica Jazz indica tra i migliori pianisti dell´anno Giovanni Guidi, ventiseienne di Foligno, al secondo posto tra il veterano Franco D´Andrea e Bollani, del quale ha preso il posto nel quintetto di Rava. Segno che i protagonisti del cool made in Italy stanno occupando la scena. Sono tanti gli under-30, colti, motivati, versatili, dinamici, tutt´altro che a corto di opportunità; hanno dalla loro uffici stampa agguerriti e occasioni concertistiche in club prestigiosi. «La realtà del jazz italiano è inversamente proporzionale a quella politica», dice il veterano Paolo Fresu, trombettista che ha suonato in 350 album. «Esistono un nord e un sud che rappresentano la ricchezza creativa del Paese, il métissage delle culture e delle genti. Non circolano soldi e non ci si vergogna di essere diversi e originali». Gli fa eco Bollani: «I jazzisti italiani sono sempre più giovani e oggi, più di un tempo, hanno la possibilità di farsi conoscere e di incidere progetti anche ambiziosi a proprio nome. È il momento d´oro dei giovani leoni». La situazione è cambiata da quando il jazz, ai tempi di Gaslini e Polillo, era musica per pochi. «Ci sono in giro talenti straordinari, vere e proprie rivelazioni. I giovani sono oggi più versatili e hanno più opportunità di quando io suonavo con Massimo Urbani. Sono preparati e disciplinati, lo vedo ogni giorno come insegnante al conservatorio», conferma il sassofonista Stefano Di Battista, 8 dischi come solista e 27 come sideman. Fabrizio Bosso, sublime trombettista torinese che ha da poco pubblicato Enchantment, un omaggio a Nino Rota con la London Symphony Orchestra, è d´accordo: «Il nostro jazz è affollato da giovani talenti. Rispetto alla mia generazione, la possibilità di collaborare con musicisti già affermati è più semplice e diretta». Manfred Eicher, patron della Ecm, la prestigiosa etichetta di Monaco che da decenni pubblica i dischi di Jarrett, Garbarek e Arvo Pärt, ne è certo: «Il jazz italiano ha oggi un altro peso nel panorama internazionale rispetto al passato. E i giovani talenti non si contano. Non ho avuto esitazioni a scritturare Giovanni Guidi dopo averlo visto al lavoro con il quintetto Tribe di Enrico Rava».
Guidi è il rampollo più blasonato del nuovo jazz italiano. Figlio unico di un rispettato impresario jazz, è inquieto e ondivago, cresciuto con i Beatles e precocemente sedotto dal Concerto di Colonia di Jarrett, per poi volare verso orizzonti tutti suoi con i quattro dischi pubblicati (l´ultimo, We don´t live here anymore, inciso a New York), l´infinità di ensemble di cui ha fatto parte e la presenza costante a fianco dell´ultimo Rava. «Giovanni è per me un pianista indispensabile», ci ha detto il trombettista, «un artista che dal vivo suggerisce input a getto continuo». È imminente la pubblicazione dell´album live di Rava dedicato a Michael Jackson (We want Michael), con Guidi al pianoforte naturalmente. «È stato divertente», esordisce il pianista, «ma io preferisco Prince». Da piccolo aveva la smania di suonare. Prima la chitarra, poi la batteria. «Erano amori estivi che l´inverno cancellava. E non era ancora jazz. In prima elementare vissi la morte di Freddie Mercury come un lutto personale. La love story con il pianoforte iniziò a dieci anni. Un giorno vidi un mio vicino che buttava nella spazzatura una tastiera giocattolo. Me ne appropriai. Dopo una settimana i miei mi avevano già affittato un pianoforte. Ricordo ancora quell´estate tra i dieci e gli undici anni: suonare era diventata un´ossessione, anche otto ore senza sosta. Gli altri avevano il calcio, io il pianoforte. Studiavo e cazzeggiavo – voglio dire: improvvisavo». Ora che l´ha scoperto Manfred Eicher, discografico con una filosofia, Guidi ha già inciso per la Ecm un intero album in trio con il contrabbassista Thomas Morgan e il batterista Joao Lobo che sarà pubblicato in autunno. «Eicher è il vero produttore», spiega Guidi, «un visionario, suggerisce immagini più che note. È un uomo che ispira. Per lui la musica è una storia da raccontare, una direzione da seguire». Il boss della Ecm è stato sedotto dalla versatilità di Giovanni, capace di trascinare il pianoforte verso orizzonti accessibili solo alla sua sfrenata immaginazione e alla sua insaziabile curiosità. «Quel che mi ha colpito», ci ha spiegato Eicher, «è il suo stile concettualmente diverso dai musicisti italiani che hanno finora inciso con la Ecm. Ha un linguaggio unico; un artista del genere suggerisce mille possibilità a un produttore intuitivo come me». Guidi schiva la routine, gli piace osare, esibirsi in trio e quartetto, e perché no? anche con un gruppo di dieci elementi (The Unknown Rebel Band). «Una volta mio padre andò in Canada per lavoro e io gli diedi una lista infinita di cd rock da comprare», racconta. «Tornò dopo venti giorni, ma a quel punto i miei gusti erano cambiati, avevo scoperto The Köln Concert; molti di quei dischi sono rimasti lì, ancora nel cellophane. Era iniziata un´altra mania, e non avevo ancora finito le medie. Da Jarrett ho fatto il percorso avanti e indietro nel jazz, ho scoperto Miles Davis…Nel frattempo facevo il liceo classico ed ero (sono) un no global convinto. Mi sono anche diplomato, non certo a pieni voti». Poi sono cominciati i seminari estivi di Umbria Jazz, le lezioni a Siena dove Rava lo inserì appena diciottenne nel gruppo Under 21. Lì iniziò la carriera di Giovanni, dentro e fuori il gruppo di Rava. «Ora la mia mania è il duo con il trombonista Gianluca Petrella, col quale ho inciso un omaggio a Nino Rota di prossima pubblicazione. Il nostro primo concerto insieme è stato un anno fa a Città del Messico. Ci siamo trovati su un palco enorme come quello di Woodstock, sbalorditi davanti a una folla oceanica. Pensavamo di essere il gruppo di spalla di chissà quale star, invece eravamo gli unici a suonare. Pubblico in delirio, trecento persone in fila per farci autografare le foto stampate da internet. Età media, vent´anni». Giovanni si perde in un mare di nomi quando incomincia a citare i suoi idoli. «I Beatles restano in testa ma ascolto anche Arcade Fire, Radiohead e Sigur Ros, Jonsi soprattutto. Adoro Rufus Wainwright. Miles Davis, naturalmente. Ornette Coleman, immenso, un inventore; tutti gli dobbiamo qualcosa. Jarrett, ovvio. Avrei voluto vivere tra gli anni Sessanta e Settanta, il periodo in cui Rava lavorava a New York nel giro di Gato Barbieri, Don Cherry, Charlie Haden, Carla Bley. Recentemente ho visto un dj set di Jeff Mills – uno degli inventori della techno – è stata una delle esperienze più divertenti e sensazionali della mia vita; anche se non diventerò mai un discotecaro». Il ritratto più tenero del ragazzo è quello che Rava dipinge nel suo libro di memorie, Incontri con musicisti straordinari – Storia del mio jazz (Feltrinelli, 2011): «Giovanni è uno dei musicisti italiani più interessanti e più lucidi. Ha il carisma del leader. È maldestro, questo bisogna ammetterlo. Se c´è una bottiglia di vino in tavola possiamo essere certi che la rovescerà addosso a qualcuno. È distratto. Solo recentemente siamo riusciti a ottenere che si ricordi di chiudere la patta dei pantaloni prima si salire sul palcoscenico». Rava l´ha portato con sé a Parigi, poi a New York, dove a febbraio il quintetto Tribe ha tenuto dieci set nel mitico Birdland. Quando si parla di palcoscenico, di concerti, di tour, la timidezza di Giovanni si dissolve: «L´artista deve elaborare le esperienze e farle proprie per essere unico. Il jazzista deve avere carisma esattamente come il pop singer. Non c´è scampo: quando sei sul palco devi pensare che sei il migliore, devi crederci. Se ti metti a pensare che in giro c´è un Jarrett sei fottuto».
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