Il recinto dei beni comuni

Il volume «Oltre il pubblico e il privato» affronta le contraddizioni del diritto proprietario e la necessità  del suo superamento. Pone cioè il tema della produzione di nuove istituzioni espressione di una pratica del comune La mille forme di resistenza presenti nelle metropoli e negli atelier della produzione esprimono tendenze che possono rompere i recinti dello status quo e diventare egemoni

Il volume «Oltre il pubblico e il privato» affronta le contraddizioni del diritto proprietario e la necessità  del suo superamento. Pone cioè il tema della produzione di nuove istituzioni espressione di una pratica del comune La mille forme di resistenza presenti nelle metropoli e negli atelier della produzione esprimono tendenze che possono rompere i recinti dello status quo e diventare egemoni Il libro curato da Maria Rosaria Marella (Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombrecorte, pp. 332, euro 25) raccoglie in quattro parti (I: Beni comuni vs. proprietà individuale; II: L’esplosione dei beni comuni; III: Lo spazio urbano come commons; IV: Lavoro = bene comune?) un insieme articolato di contributi, singolarmente coerenti – troppo ricco perché di ognuno di questi contributi si possa dar conto. È invece alla loro coerenza che va data la parola, meglio, allo schema che dispone una figura del comune sul terreno giuridico e politico –  fra riconoscimento del comune e sua produzione. Ciò significa che questo libro comincia già (assumendo la maturità della discussione in corso, almeno negli Usa e in Italia) a spostare il discorso dalla definizione concettuale del comune alla sua affermazione come istituzione. Dice bene Marella: «in questa fase è dunque strategico fare emergere la tensione fra individualismo e solidarietà, fra esclusivo e comune, che pervade l’intero sistema giuridico fin dentro alle strutture del mercato, poiché a partire da essa è possibile sin da ora pensare la costruzione di uno statuto giuridico del comune».
Passaggi riformisti
Questo significa che parlare dell’istituzione del comune, e delle tattiche che possano assicurare quel risultato strategico, impone (qui si contemplano tre esempi): 1) di procedere caso per caso nell’affermare la natura di commons di una risorsa; 2) di ridefinire il concetto di soggetto giuridico non come un’identità autocentrata bensì come punto di incrocio di un fascio di rapporti sociali; 3) infine, di affermare il criterio di gestione collettiva e/o partecipata nell’amministrazione del comune. In questo modo si potrà anche cominciare a pensare praticamente ad un’estensione progressiva dell’uso comune dei beni comuni e, nello stesso tempo, all’affermazione di una nuova titolarità, molteplice piuttosto che individuale, dei medesimi. E in questo modo si potrà anche cominciare ad organizzare i soggetti che a quella legittimità comune aspirano, attraverso un processo costitutivo forte – un divenire nuovo del soggetto, un divenire «soggetto comune».
Marella, a fronte di altri punti di vista, sembra qui aderire alla proposta della commissione Rodotà: «la categoria dei beni comuni è disegnata a prescindere dall’appartenenza, ciò dalla titolarità della proprietà sul bene, che può essere pubblica o privata. Il bene comune è piuttosto individuato in quanto necessario alla realizzazione dei diritti fondamentali degli individui». Che questo passaggio tattico e questo modello possano essere decisivi, muovendo dalla retorica dei diritti fondamentali e dando legittimità universale alla pretesa di ciascuno ad agire in giudizio, intervenendo sulla gestione del bene comune contro chi ne è formalmente il titolare, è decisione più o meno apprezzabile. A me sembra che essa contraddica quella via, paradossalmente «privatistica» (o, se si vuole, «egoistica») al comune che non esige «traduzioni» del/dal «pubblico» e neppure riferimento ai diritti fondamentali (sempre sporcati dalla tutela statale) – ma fa piuttosto di tale riferimento, un’implicita sollecitazione ad un passionale rifiuto della solitudine ed alla ricerca di incontro con i molti nel comune.
Un diritto del comune mi sembra infatti poter solo sorgere da un non semplice ma diretto sforzo all’organizzazione dei claims e dal riconoscimento delle condizioni comuni della produzione (cooperazione sociale, linguaggi comuni, ecc.). La tattica proposta da Marella ha comunque il vantaggio di permettere da subito una pratica del comune, sia pure su spazi interstiziali. Esempi forti possono essere letti nell’opposizione (anche «cattiva») praticata dalle popolazioni dei quartieri berlinesi contro la «gentrificazione»”; oppure dalle pratiche – antiegemoniche, antiproprietarie e antimonopoliste – messe in atto dagli hackers contro le codificazioni sulla proprietà intellettuale.
Si ritengono deboli queste indicazioni di una prassi costitutiva – ma forse semplicemente espressiva – del comune? Si ritiene che questo percorso transitivo – nell’ambito del diritto vigente – sia insufficiente all’espressione di una categoria del comune? Ed al suo mantenimento nel tempo – meglio, nella durata? Certo, ci troviamo davanti ad esperienze di un vigoroso riformismo giuridico, e per chi poco gusti le salse riformiste (come mi capita), il ritrarsene parrebbe ovvio. Ma nel libro di Marella (e negli interventi da lei introdotti per collegare le singole parti in un discorso, come si diceva, coerenti) sono espresse forti esperienze che ci aiutano ad aderire a queste proposte piuttosto che a rifiutarle. Mi riferisco in particolare agli interventi della stessa Marella e di Agostino Petrillo a difesa dello spazio urbano come commons ed all’intervento di Adalgiso Amendola sulla questione: se il lavoro sia un bene comune?
I primi interventi procedono dall’analisi delle sempre più feroci privatizzazioni dello spazio pubblico metropolitano e dalle modalità di spossessamento e di creazione di nuove marginalità urbane. Dentro questo fosco quadro, si chiedono, se si possano cogliere – oltre la crisi della città neoliberaleed il trionfo della rendita immobiliare – linee di ricomposizione di un comune, agito dagli incontri dei cittadini e dalla forte pressione dei loro bisogni (e linguaggi e desideri) nel senso della creazione non solo di un generale diritto di accesso nello spazio urbano ma anche di un gioioso rinnovamento di un comune metropolitano. Certo, queste linee non sono ancora politicamente soggettivate, ma concretamente presupposte, ovvero poste in essere – ormai – nello smascheramento e nell’isolamento delle ideologie e degli interessi che sono dietro la «gentrificazione». Ma, andando più a fondo su quel terreno che Spinoza chiamava «immaginazione», Marx «tendenza» e Foucault «dispositivo» (scusatemi il florilegio filosofico): non vi sembra che si assista ormai nella metropoli all’emergenza di una continua tensione ed a un gioco politico fra vecchie e nuove forme di proprietà collettiva, di nuove fonti di produzione di regole nella gestione del territorio e degli spazi comuni, tali che la relazione fra pubblico e privato sembra completamente ricreata non più in termini oppositivi ma in termini di godimento comune delle singolarità? La metropoli è il grande terreno di sperimentazione del comune.
L’ingovernabile eccedenza
Il secondo intervento, quello di Amendola, assumendo la cooperazione sociale della forza lavoro nella metropoli in una dinamica di valorizzazione ormai indistricabile dalla vita quotidiana, mette in luce con forza come la produzione di soggettività legata alla cooperazione nel General Intellect, contraddica e si ponga come «eccedente» rispetto alle strutture di cattura del capitale finanziario. Certo, parlare di «lavoro come bene comune» è uno sporco scherzo che solo umoristi inglesi del diciottesimo secolo, alla Jonathan Swift, potevano permettersi. Ciò riconosciuto, non è tuttavia impossibile pensare ad uno statuto comune della forza-lavoro (ancora un passaggio riformista) che, sul riconoscimento della capacità produttiva della cooperazione sociale, fondi un reddito incondizionato di cittadinanza. Un passo in avanti nella definizione di un diritto non più privato, non più pubblico ma singolare, del comune – dove finalmente il lavoro, distruggendo comando e sfruttamento, si presenti come attività comune. Se non ora, quando? Davvero non si capisce di che cosa parlino – quando dicono «beni comuni» – ecologisti e preti, amministratori e politici se non pensano ad un reddito garantito per tutti, che la produzione sociale ormai impone.

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