Proviamo ad anticipare lo scenario in cui il nostro paese verrà a trovarsi da qui a 7-8 mesi. Nessuno può dubitare del fatto che le condizioni economiche generali peggioreranno ulteriormente rispetto alla già gravissima situazione presente. Non è la voce inascoltata di Cassandra a dirlo, ma le previsioni dello stesso governo in carica e degli organismi internazionali. Dunque, nei prossimi mesi noi avremo centinaia di migliaia di nuovi disoccupati.
Proviamo ad anticipare lo scenario in cui il nostro paese verrà a trovarsi da qui a 7-8 mesi. Nessuno può dubitare del fatto che le condizioni economiche generali peggioreranno ulteriormente rispetto alla già gravissima situazione presente. Non è la voce inascoltata di Cassandra a dirlo, ma le previsioni dello stesso governo in carica e degli organismi internazionali. Dunque, nei prossimi mesi noi avremo centinaia di migliaia di nuovi disoccupati.
L’ulteriore impoverimento dei cassintegrati di lungo corso, il trascinamento nella povertà o quanto meno nel disagio sociale di strati estesi di ceto medio a causa dell’innalzamento della pressione fiscale (IMU, IVA, imposte locali). Una spaccatura verticale fenderà in due il paese come non accadeva da decenni e come forse mai era accaduto, con tanta divaricazione, nella storia dell’ Italia contemporanea.
Non è difficile immaginare che cosa accadrà al solido zoccolo di consenso, già in fase di erosione, di cui ha finora goduto il governo Monti. Così come è facile prevedere che cosa ne sarà del residuo grado di fiducia riposto dagli italiani nei partiti politici. La sfiducia presente, lo ricordiamo, non è solo alimentata dallo spettacolo moralmente riprovevole dei privilegi a cui il ceto politico, indistintamente, si mostra così tenacemente legato. Né solo dagli episodi di corruzione che danno un quadro desolante della vita interna dei partiti. Ma forse ancora di più dalla ormai conclamata loro incapacità di cambiare, se non in peggio, la condizioni delle grandi masse popolari. Un tempo redistributori di ricchezza, essi hanno finora lavorato – tramite la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, le politiche fiscali – per concentrarla in poche mani. I dati sul divario dei redditi delle famiglie italiane, forniti dalla Banca d’Italia già prima della crisi, sono l’esito di questa politica.
Ma da qui a 8 mesi le “grandi riforme”, le liberalizzazioni, l’ulteriore ristrutturazione del mercato del lavoro, mostreranno la loro prevedibile, totale inefficacia a lenire una disoccupazione imponente e a fare uscire l’Italia dalla recessione. Il debito resterà li, probabilmente accresciuto dal calo, ufficialmente previsto, del PIL. A quel punto il re sarà completamente nudo. A quali altre riforme faranno pubblicità governo e partiti che lo sostengono? Come spiegheranno il disastro a cui hanno condotto il paese?
Di fronte a un tale scenario, il Manifesto per un nuovo soggetto politico – o di una “nuova soggettività politica” ? – appare un scelta coraggiosa e di grande responsabilità. Un gruppo di intellettuali, di fronte alle prospettive facilmente prevedibili dell’immediato futuro, constatando la subalternità se non l’impotenza del maggiore partito d’opposizione, elabora un canovaccio progettuale per sperimentare strade nuove di democrazia, destinata a offrire alternative alla sinistra nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Quel Manifesto, ovviamente, non è lo statuto solenne di una setta. Nessuno dei firmatari ha prestato giuramento sui suoi vari articoli. Dunque, pluralità di posizioni intorno a un progetto e ad aspirazioni convergenti.
Come hanno chiarito sul Manifesto tanto Marco Revelli che Tonino Perna, non è alle viste la nascita di nuovo partito. Lo scenario è già abbastanza affollato. E soprattutto il popolo della sinistra – questa è una mia convinzione – lo vivrebbe come un elemento di complicazione dello scenario politico oltre che di divisione del fronte di lotta. Se c’è una aspirazione davvero vasta e profonda, in questo popolo, questa è l’unità delle forze che lo rappresentano. Questione, com’è noto, che costituisce il problema dei problemi e non solo in Italia. Ma come si può muovere tale nuovo soggetto in un così stretto sentiero? Io credo che una rete di comuni in grado di costituire, come dice Alberto Lucarelli, una « una intelaiatura », democratica di tipo nuovo, costituisca un tentativo importante di potenziamento della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Non possiamo continuare a pensare che la politica altro contenitore non abbia che i partiti. I quali, lo ricordo, alimentano un sentimento di ripulsa in una massa crescente di italiani. Così come credo che l’elaborazione teorica sui beni comuni, apra un’ ampia e inesplorata strada, in grado di dilatare il territorio dei diritti, rinchiusi per secoli, in Occidente, dentro la rigida gabbia binaria di pubblico/privato. Tuttavia io non ritengo – come del resto gli estensori e i firmatari del manifesto – che si debba abbandonare il terreno della democrazia rappresentativa, e darla come perduta e inutilizzabile. In Parlamento si votano leggi che condizionano la vita di tutti noi, per la durata di anni e decenni. L’umana durata della lotta politica. Il potere legislativo è un pezzo rilevante dello stato, che oggi appare insufficiente a contrastare i potentati economici e finanziari mondiali. Dobbiamo rinunciare anche a tale soglia minima di potere?
C’è un aspetto, nella contrapposizione tra democrazia rappresentativa e partecipata, che andrebbe chiarito con realismo ed onestà. La partecipazione di massa alle decisioni che si sprigiona nei momenti delle lotte, non dura. Essa si rende possibile solo in luoghi delimitati, ed è frutto dell’iniziativa di ristrette avanguardie. La lotta è la febbre di crescita della società civile, che accelera la trasformazione culturale e politica generale, ma non è la sua normale fisiologia. Pensiamo al movimento di Occupy Wall Street. I protagonisti, che parlavano a nome del 90% degli americani, erano numericamente meno dell’1% contro cui lottavano. E tuttavia il loro consenso nella società americana era ed è assai più vasto. Ma questo consente di vedere la grande differenza che esiste tra partecipazione e consenso. In questo passaggio si coglie la differenza fra avanguardie e masse. E si comprende la necessità di trasformare quel consenso in egemonia organizzata, in “casematte” – per dirla con Gramsci – in cui il potere popolare si solidifica in organizzazione per durare nel tempo. Quanti degli italiani, che nel referendum hanno votato per l’acqua pubblica, sono poi disposti a impegnarsi per il controllo della sua gestione democratica? Di certo una minoranza. Per questo la democrazia rappresentativa dell’amministrazione comunale finisce con l’avere il sopravvento e durare.
Ora, io credo che il nuovo soggetto potrebbe battersi per modificare le ragioni che fanno degenerare la democrazia rappresentativa. Chiedamoci: perché quella forma di potere delegato, col tempo, si separa e si nasconde allo sguardo degli elettori? Perché la democrazia organizzata nei partiti si restringe a oligarchia? Ma perché gli elettori, dopo aver deposto la scheda nell’urna, ritornano nei loro ruoli sociali tradizionali, e non hanno più tempo e passione per seguire le sorti del loro mandato. Nessuno, del resto, può pretendere, che la politica duri nel tempo come l’unica passione dominante della vita di milioni di persone. E la separatezza e opacità dei corpi eletti, inevitabilmente, finisce col prendere il sopravvento, la politica diventa pascolo recintato di professionisti. Ebbene, oggi la rete consente ciò che era impossibile solo venti anni fa. Io credo che la creazione di un Osservatorio politico nazionale, gestito in rete, e finalizzato a seguire e monitorare, durante il mandato, il comportamento degli eletti, potrebbe accorciare in maniera efficace la distanza tra governanti e governati. Ma esso potrebbe costituire una forma a dimensione nazionale di democrazia partecipata. Tramite la rete ogni cittadino potrebbe comunicare all’Osservatorio le proprie osservazioni locali, le proprie critiche e suggerimenti agli eletti, prendendo parte a un Agorà che non richiede una militanza fisica quotidiana, ma che offre l’opportunità di comunicare con efficacia la propria opinione a un organismo con il compito istituzionale di accoglierla e discuterla.
Ovviamente, tale istituzione andrebbe accompagnata con vari altri interventi di riorganizzazione della vita dei partiti. Uno di questi, imprescindibile, è la fissazione di un tetto massimo di spesa per ogni candidato nel corso della campagna elettorale. Il dispositivo introdurrebbe un importante egalitarismo di partenza, risolverebbe molti conflitti d’interesse, limiterebbe la corruzione, avrebbe la forza potenziale di spezzare il legame tra i partiti e i poteri economico-finanziari che oggi limitano la sovranità degli stati. Com’è possibile realizzare un tale ambizioso obiettivo? Oggi dall’Europa giunge una insperata opportunità. Grazie al Trattato di Lisbona sarà possibile già dai prossimi mesi mettere in atto l’ICE, l’Iniziativa dei Cittadini Europei, i quali potranno proporre importanti riforme raccogliendo un milione di firme in almeno 7 stati dell’UE. Una iniziativa che partirà quest’anno riguarda il reddito di cittadinanza. E qui siamo già ai contenuti promessi nel titolo. Tale battaglia può innescare una mobilitazione europea di vasta portata, in grado di coinvolgere milioni di giovani disoccupati. Si rassegnino gli sviluppisti : anche quando saremo usciti dalla turbolenza questo capitalismo non creerà più piena occupazione. La sinistra deve perseguire, come suo asse strategico, la separazione del “reddito per una vita degna” dal lavoro, che sarà sempre meno. Anche così si spezza il rapporto di forza che dà oggi al capitale la capacità di condizionare a suo vantaggio la dinamica di classe e spaccare la società con disuguaglianze insostenibili. Anche così si può fare uscire la nostra gioventù dalla attuale disperazione, senza attendere il Godot della crescita. Da dove prendere i soldi? Qui si apre una questione che riporta ai rapporti tra il “nuovo soggetto” e la sinistra nel suo complesso. Una sinistra, ricordo, che si compone anche di forze importanti che oggi non stanno in Parlamento. Oggi è evidente perfino a Warren Buffet , uno degli uomini più ricchi del mondo, che la crisi attuale è l’esito di un “grande saccheggio” del capitale che dura da trent’anni. Si supera trasferendo ricchezza dai ceti ricchi alle classi popolari. E uno dei mezzi per realizzarlo è riportare la fiscalità generale ai meccanismi progressivi che sono stati manomessi dalle politiche neoliberistiche. Mario Pianta, sul Manifesto (4.4.2012) ne ha parlato diffusamente. Si deve dunque allestire nel paese uno scontro di classe di inusuale ampiezza ed asprezza, che imporrà al PD scelte non facili. Il gruppo dirigente di quel partito non potrà più raccontare la favola ormai consunta delle liberalizzazioni. E dovrà fare i conti con una questione spinosissima, che è rimasta silente negli ultimi tempi. E’ dal 18 novembre 2001 che l’Italia partecipa in forme sempre più impegnative alla guerra in Afganistan. Oggi si spendono circa 68 milioni di euro al mese per il nostro contingente. Che cosa dirà, quel gruppo dirigente, a milioni di italiani disperati, su una guerra che viola la Costituzione, appare ormai perduta e accresce un debito pubblico che si fa pagare ai cittadini incolpevoli con lacrime e sangue? La partita si aprirà presto. Intanto, si potrebbe già pensare, per le prossime elezioni politiche, a organizzare, dove possibile, delle primarie territoriali: forme di selezione dei candidati che a livello locale sfuggano ai comandi delle segreterie e premino i soggetti che si sono distinti nei movimenti, mostrino capacità e culture politiche all’altezza delle sfide. Anche questo potrebbe essere un mezzo per incominciare a pensare a una ristrutturazione plurale dell’intera sinistra, che certo, dopo Monti, non può più essere quella di prima.
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