Una jam session resistente

La creolizzazione è un termine pacato per indicare come nella mondializzazione la cancellazione delle differenze linguistiche sia un processo destinato al fallimento. E indica altresì un programma di lavoro per definire criticamente le gerarchie presenti nella globalizzazione. Il dialogo tra due teorici della modernità . Un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista «Lettera internazionale» Il testo che segue è la conversazione tra il filosofo francese e lo scrittore e saggista antillano avvenuta all’interno di un seminario di studi sulla realtà  contemporanea.

La creolizzazione è un termine pacato per indicare come nella mondializzazione la cancellazione delle differenze linguistiche sia un processo destinato al fallimento. E indica altresì un programma di lavoro per definire criticamente le gerarchie presenti nella globalizzazione. Il dialogo tra due teorici della modernità . Un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista «Lettera internazionale» Il testo che segue è la conversazione tra il filosofo francese e lo scrittore e saggista antillano avvenuta all’interno di un seminario di studi sulla realtà  contemporanea. La discussione tra i due intellettuali è attorno allo spaesamento provocato da quella condizione definita «Tutto-Mondo», cioè alla tendenza fortemente dominante nella globalizzazione tendente alla produzione di una «cultura omogenea» che cancella le diversità e le differenze. Di fronte a questo scenario, Derrida propone tecniche di sottrazione e di defezione. Diversa è invece la prospettiva di Glissant, che fa della valorizzazione delle differenze un principio politico irrinunciabile. In entrambi i casi, comunque, è forte la sottolinenatura critica del carattere «teologico» con cui il pensiero dominante propone la globalizzazione come migliore dei mondi possibili. Un dialogo che presenta la sua attualità in una situazione dove la globalizzazione ha perso la sua spinta propulisiva, nonostante i suoi apologeti continuino a presentare la religione del libero mercato come soluzione alla crisi di un modello sociale, politico e economico.
Édouard Glissant. Vorrei soltanto indicare due o tre linee di discussione a proposito di quello che ha detto Jacques. La prima è che mi sembra che, sulla questione del tremore, egli si sia collocato risolutamente, e a ragione, in un campo teologico, se non addirittura teleologico, in cui il tremore interviene come categoria del rapporto con Dio. E ha anche giustamente posto la discussione sotto il segno del multilinguismo – che mi è caro perché uno dei miei princìpi è che scrivo in presenza di tutte le lingue del mondo. Ma dove vorrei stimolare un dibattito, è sul fatto che penso che Dio sia monolingue e che gli dèi siano multilingui. Quando dico che Dio è monolingue, voglio dire che Il Dio è monolingue. Gli dèi sono plurilingui perché non sono la stessa cosa. Il Dio – può essere il Dio degli islamici, il Dio degli ebrei, può essere il Dio dei cristiani – è il Dio, il Dio geloso e monolingue ed è lo stesso Dio geloso per gli uni e per gli altri; gli dèi amerindi, invece, che sono dèi sparsi – contrappongo gli dèi sparsi al Dio geloso – sono dèi plurilingui: perdono la loro lingua, ne inventano un’altra, non conoscono la sacralità della lingua e della rivelazione. È questo che voglio dire, c’è una differenza tra il Dio che è monolingue e gli dèi che sono plurilingui.
Allora, dovremmo cercare di discutere sulla questione a partire dalla simbologia della Torre di Babele, ovvero: se si parlano varie lingue, non ci si può più intendere ed è la fine della comunità. Si tratta di una difesa eclatante del monolinguismo. Bisognerebbe forse discutere di tutto ciò. La differenza, rispetto a quello che penso del tremore, è che per me il tremore è una categoria del rapporto con il mondo e con il mondo attuale, mentre Jacques ne fa una categoria prima di tutto del rapporto con Dio.
È una differenza interessante perché ho notato che, nel suo discorso, Jacques, per lo meno a due riprese, ha detto: «Un tremore degno di questo nome», e io penso che non ci sia alcun tremore degno di questo nome perché, se un tremore è degno di questo nome, non è più un tremore. Dunque, c’è la questione, che può essere interessante da trattare, della categoria del rapporto con Dio e della categoria del rapporto con il mondo. E da questo punto di vista, là dove non sono affatto d’accordo – dove non sollevo domande, ma dico che non sono d’accordo – è dove Jacques dice che c’è mondializzazione e, dunque, non c’è mondo: cioè che tutto ciò che costituisce il carattere negativo della mondializzazione, che egli ha mostrato in dettaglio, fa sì che possiamo dire che in effetti non c’è mondo nel suo discorso.
Da parte mia, contrappongo alla mondializzazione ciò che chiamo mondialità: per me la mondialità è l’intuizione, il senso, la prospettiva e la poetica dell’insieme delle interrelazioni del mondo – anche minacciato, anche sotto lo sguardo dei satelliti, anche sotto il dominio delle potenze egemoniche – che fa sì che in noi ci sia questa poetica della mondialità che è il contrario «positivo» (lo diremo tra virgolette perché «positivo» è un termine di cui bisogna diffidare) della mondializzazione. Del resto, quando ho espresso per la prima volta l’idea della poetica della mondialità da contrapporre a ciò che sappiamo del negativo della mondializzazione, ho notato che qualche tempo dopo alcune associazioni internazionali che si dicevano antimondialiste hanno cambiato il loro nome e si sono dette per l’altermondialità. In altre parole, c’è qualcosa che si sta muovendo e non si tratta solo del negativo della mondializzazione, che pure è importante; c’è anche ciò che chiamo una poetica: una poetica non significa scrivere poesie: significa avere una concezione del modo di pensare, di agire e di sentirsi nel mondo. E questa poetica della mondialità fa sì che, per me, ci sia un mondo. Il mondo non smette di esistere e si può agire, secondo me, solo nel mondo, cioè si può agire solo in funzione di questa poetica della mondialità che sarebbe un mondo. Si tratta forse di cose di cui bisognerebbe discutere per vedere se siamo d’accordo.
Jacques Derrida. Hai ragione nel sottolineare che l’espressione «degno di questo nome», di cui mi servo spesso, e che è stata oggetto di discussione permanente con i miei più grandi amici, è problematica. Non voglio fare un discorso lungo sulle ragioni che potrebbero giustificare l’uso di questa espressione; dirò soltanto che oggi, quando dico «un tremore degno di questo nome» intendo suggerire, attraverso tutti i giochi inestricabili degli usi letterali o figurati della parola «tremore», che non si sa che cosa vuole dire questa parola. Si possono riconoscere usi della parola «tremore», ma il tremore degno di questo nome non esiste.
È possibile tuttavia rilevare quanto meno un effetto di senso; quando parliamo tra noi, supponiamo di comprendere che cosa vuol dire «tremare» in una lingua. Abbiamo memoria di un nome e su di noi incombe la responsabilità di determinare che cosa, in linea di principio, questo nome vuol dire: anche se in seguito le cose si complicano infinitamente, c’è una presupposizione di ciò che sarebbe degno di questo nome, del fatto che una cosa sia o non sia degna del suo nome. Se si volesse tradurre tutto ciò in linguaggio saussuriano (significante, significato, referente), si direbbe: il referente è degno di essere chiamato così, è cioè degno del suo significato che è degno del suo significante. Si presuppone un’adeguazione. È il presupposto del linguaggio. Non dico che questa adeguazione abbia luogo: se esistesse veramente, non ci sarebbe mai alcuna possibilità di malinteso, non ci sarebbe poesia.
Infine, un ultimo punto. Ogni volta che ho l’occasione di prendere la parola e di prendere posizione pubblicamente, mi rendo conto di essere sempre più altermondialista. L’ho detto e l’ho scritto – anche se il movimento altermondialista è oggi ancora eterogeneo e caotico. Preferisco l’espressione altermondialista all’espressione antimondialista. Una volta detto questo e trovandoci d’accordo, ti pongo una domanda. Quando parli del «Tutto-Mondo» supponi che ci sia un mondo e che il mondo sia uno? Perché se il mondo è uno, se c’è un mondo, allora tutti i discorsi sull’arcipelago, sul segreto, crollano. Da parte mia, credo che tutti noi supponiamo che ci sia un mondo; ma allo stesso tempo sono esattamente, letteralmente persuaso del contrario, cioè che tra il mio mondo e il mondo di chiunque altro ci sia un abisso incolmabile. C’è un’infinita molteplicità di mondi intraducibili. Per me, il mondo è una pluralità di mondi possibili. Dunque, non c’è un mondo, e dunque, soprattutto, non c’è un «Tutto-Mondo» – se «tutto» vuol dire che tutto vi si raccoglie. Se veramente il tutto presuppone l’unità raccolta di un mondo, allora è lì che si pongono le vere questioni.
Édouard Glissant. Per me, «Tutto-Mondo» vuol dire un processo ininterrotto di relazioni e la quantificazione assoluta di tutte le componenti del mondo, dalla più grande alla più piccola, dalla più spessa alla più sottile, dalla più leggera alla più pesante. La nozione quantitativa di relazioni sostituisce la nozione qualitativa di universale. Per me, è questo il «Tutto-Mondo», un mondo che si ripercuote su di noi in maniera immediata, ma è evidente che si ripercuote su di te in modo differente che su di me. Di conseguenza, per te, il «Tutto-Mondo» non sarà ciò che io chiamo il «Tutto-Mondo», è evidente. Ma quello che ci accomuna è che in questo sistema di relazioni e di quantificazione – che sfugge, che vuole sfuggire, all’impostura dell’astrazione universale per entrare nella quantificazione reale dei dati del mondo – condividiamo la stessa situazione in relazione al «Tutto-Mondo», anche se concepiamo questo Tutto-Mondo in maniera completamente diversa.
Dopo tutto ciò che hai detto sulla paura e sul tremore, cercherò comunque di separare timore da tremore. Perché? Non perché essi siano separabili, credo che ci sia in effetti un tremore legato al timore, il timore dell’altro e soprattutto il timore di Dio. Ne sono convinto. Ma non credo che questo legame sia un legame naturale, credo che sia un legame di situazione. E, opponendomi a ciò o situandomi accanto a ciò, cerco di concepire il tremore come un ritmo. Il tremore è un ritmo. E il mondo è un ritmo nuovo ed è per questo che tremiamo, per questo cambio di ritmo.
Questo ritmo nuovo fa sì che noi cerchiamo di aggrapparci a esso attraverso un pensiero del tremore che è insieme un pensiero del ritmo e non è un pensiero del ritmo, cosa che è un ritmo in sé. E qui cercherò di rispondere alla domanda: il ritmo del tremore e il ritmo del mondo attualmente sono ritmi ripetitivi. La ripetizione è uno dei fondamenti dei ritmi. Credo che la ripetizione sia uno dei modi più attuali e più fecondi di conoscenza, e il balbettamento è una ripetizione, è un modo per cercare di integrare la ripetizione in un dato totale, ed è questo che è interessante nel balbettio profetico. Ed è talmente vero che tutti i grandi libri sacri sono ripetitivi. L’Antico Testamento – parlo dello stile – è un libro ripetitivo. E penso che sia per questo che non si possono separare timore e tremore, ma lo si può fare quando si tratta di affrontare l’aspetto del ritmo ripetitivo che è una questione fondamentale per noi, oggi.
Infatti, se vogliamo incontrarci in un luogo o in un altro, non sapendo ancora né quando né come; se vogliamo veramente incontrarci, noi che veniamo da universi così diversi, da mentalità così diverse, da culture così diverse, da teologie così diverse; se vogliamo incontrarci in un luogo, allora dovremo ripetere insieme, come si dice che un attore di teatro ripete la sua parte. E perché tutto ciò? Perché bisogna ripetere insieme e perché il tremore è un’arte, prima di tutto un’arte della ripetizione? È proprio perché abbiamo a che fare con ciò che diceva il nostro amico: far sì che si incontrino il dentro e il fuori; e il dentro e il fuori che cosa sono nel mondo attuale? È il centro che domina e sono le periferie a essere dominate e ciò è assolutamente incontestabile come situazione nel mondo; noi dobbiamo far incontrare tutto ciò. Potremmo anche dire: «Qui si gioca l’avvenire della democrazia, come si può rifare la democrazia, come si può adattarla?», finché non avremo fatto incontrare il centro, il dentro e il fuori, finché non avremo fatto sì che si congiungano – perché il centro si considerava un dentro, e finora le periferie si sono considerate il fuori -, finché non avremo fatto questo lavoro, che è un lavoro difficile, un lavoro ingrato, non avremo permesso che il nostro ritmo si accordi con il ritmo del mondo. Ed è per questo che penso che, se esiste una parola profetica, e in ogni caso una parola profetica sul divenire-mondo, questa è una parola ripetitiva, una parola dal ritmo ripetitivo.
Uno dei miei rimpianti è che tutti i tentativi, in Occidente, di preparare una riforma dei rapporti dell’uomo con se stesso e con ciò che lo circonda, sono ancora auto-centrati, non considerano il campo assolutamente spaventoso di complessità di ciò che accade nel mondo, per tentare di avviare questo cambiamento. Per questo ritengo che la creolizzazione non abbia solo un carattere linguistico, ma sia qualcosa di interessante che bisogna comunque vedere. Solo cinquant’anni fa, tutti i manuali di linguistica cominciavano con un capitolo sulle lingue indoeuropee perché si pensava che esse costituissero il basamento, l’origine.
Oggi, tutti i manuali di linguistica, sia quelli più scientifici sia quelli destinati alla volgarizzazione, cominciano con un capitolo sulle lingue creole. Perché ci si dice: non abbiamo assistito alla nascita delle lingue; forse possiamo trarre vantaggio dal vedere come queste lingue siano apparse bruscamente e in maniera così fulminante tra il XVI e il XVII secolo e siano arrivate fino a noi. Si può imparare qualcosa da questo, e che cosa si impara? Si impara che tutte le lingue all’inizio sono creole, che la lingua francese all’inizio è una lingua creola, che l’italiano è all’inizio una lingua creola – che sono approcci, mescolanze, tentativi, rifiuti, ribellioni, tra lingue regionali, classicismi del pensiero o dell’inconscio e che queste mescolanze hanno finito, in maniera imprevedibile e impredicibile, con il fare una lingua. Oggi si sa questo. Oggi si può dire, a meno che non ci sia qualcuno che non è d’accordo, che la lingua francese, ai suoi inizi, è una lingua creola; e io mi spingo ancora più lontano, dico che Rabelais è un autore creolo.
Dunque, la creolizzazione può offrire, non modelli, perché nessuno al mondo oggi ha il diritto di proporre modelli, ma approcci di struttura e di destruttura nel nostro universo ed è in questo che la creolizzazione è importante. A una condizione: ovvero che non la si consideri come uno stato, perché la creolizzazione è un processo, ed è un processo inarrestabile. È questa la mia posizione, oggi. Può darsi che cambi, ma penso che il mondo intero si stia creolizzando e che di conseguenza tutte le parti del mondo in cui esiste la parola dettata di Dio comincino, che lo vogliano o no, a sentire la parola degli altri dèi, già barbari e nemici. .
Non faccio l’apologia delle lingue creole, faccio l’apologia della creolizzazione. Non è la stessa cosa. Ci sono giovani scrittori antillesi che prendono a riferimento il mio lavoro e che della creolità hanno fatto un manifesto. E io dico loro che la creolità, come la latinità, è, oggi, qualcosa di assolutamente caduco nel mondo. Non si può tifare per i creoli, né per le lingue creole, né per le letterature creole. Quello che difendo è il principio continuo della creolizzazione. Che è cosa ben diversa.
Traduzione di Monica Fiorini

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