Arriverà in Italia a giugno il Wrecking Ball Tour con la E Street Band che ha rodato i motori nel New Jersey e ha affrontato il pubblico di Manhattan con due serate memorabili al Madison Square Garden di New York
Arriverà in Italia a giugno il Wrecking Ball Tour con la E Street Band che ha rodato i motori nel New Jersey e ha affrontato il pubblico di Manhattan con due serate memorabili al Madison Square Garden di New York NEW YORK.Se questo è quel che vedremo a giugno in Italia, sarà un evento imperdibile. Il Boss non stanca, non indulge, non invecchia; ha un’America da raccontare, romantico, poetico, nostalgico, ma anche fustigatore di una democrazia che non è stata all’altezza della bandiera che ha sventolato al mondo. Dopo il rodaggio del Wrecking Ball Tour – che approda in Europa il 13 maggio – a East Rutherford, nel suo New Jersey, Bruce Springsteen ha affrontato il pubblico di Manhattan con due serate memorabili al Madison Square Garden di New York. Tre ore di spettacolo per celebrare quarant’anni di carriera, 185 milioni di copie vendute, 21 Grammy Awards e 17 album di studio (l’ultimo, Wrecking ball, uscito quest’anno), tutti all’altezza dei capolavori conclamati: Born to run e Born in the U.S.A.
La scena è spoglia, i ventimila sono distribuiti a 360 gradi intorno al palco. È il segnale che la protagonista, ancora una volta, sarà la musica, nessuna diavoleria scenica, gigantografie o fuochi d’artificio. L’unica civetteria che si concede è solleticare Manhattan con la voce di Sinatra che canta New York, New York, sulla quale s’inserisce dopo la prima strofa cantando Badlands con una ferocia inaudita, coinvolgendo immediatamente la E Street Band in una jam session che non dà più tregua fino all’ultimo bis. Il Boss aveva una scommessa da vincere: continuare a far esistere la E Street Band anche senza la carismatica presenza del sassofonista Clarence Clemons, morto l’anno scorso. Pericolo scongiurato, il cast è comunque stellare. Non solo la presenza di chitarristi di valore come Nils Lofgren e Steven Van Zandt trascinano la platea con assoli vorticosi (Lofgren incominciaa ruotare come un derviscio e scatena il delirio sul finale di Because the night) e il pianista Roy Bittan restituisce fedelmente la grandeur sonora dei primi quattro album, ma Jake Clemons, il nipotino chiamato a rimpiazzare The Big Man, riesce a riempire, anche con la presenza fisica, il vuoto lasciato dallo zio carismatico.
Diciassette musicisti sul palco, con una violinista, la nutrita sezione di fiati, due coristi e l’immancabile moglie Patti Scialfa, non indispensabile ma coreografica, alla chitarra. Solo un leone riuscirebbe a far udire il suo ruggito su un’orchestra del genere. E qui il Boss vince la sua seconda scommessa: tenere la scena a 62 anni con la stessa travolgente energia degli anni 80. Fasciato nei jeans che ormai sono diventati la sua seconda pelle («Il più bel culo del rock’n’roll!», esclama una signora attempata a un marito decisamente fuori forma), IL BOSS La famiglia Springsteen sul palco a New York Springsteen non si risparmia. Sfida l’artrosi, gettandosi secchi d’acqua addosso quando si lascia cadere in ginocchio e scivola per dieci metri sul fronte del palco (Madonna al Superbowl? una dilettante al confronto). Il Boss è Elvis e Woody Guthrie, Otis Redding e Leadbelly, James Brown e Bob Dylan in una sola, esplosiva figura di entertainer; il cantautore dei grandi contenuti e il rocker che brucia la scena. È esaltante, ma anche commovente quando intona gli inni al suo paese ferito e sconvolto dalla violenza: Death to my hometown, The rising, My city of ruins e American skin (41 shots). Lo Springsteen addolorato e riflessivo degli ultimi capolavori è tutto dentro l’amarezza di Wrecking ball e Jack of all trades, che recita con rassegnato populismo: «Il banchiere s’ingrassa, l’operaio dimagrisce / È successo prima e succederà ancora».
C’è grande commozione al Madison quando la musica tace e un megaschermo trasmette il tributoa Clarence Clemons con immagini raccolte on the road nel corso dei suoi quarant’anni al servizio della E Street Band. C’è grande tensione al Madison quando il Boss si avventura in uno stage diving alla Kurt Cobain, in bilico sulle teste dei fan della platea, un giochetto che terrorizzerebbe anche il più spavaldo e incosciente dei rocker. C’è ilarità al Madison quando Bruce punta il riflettore sulla sua famiglia e chiama sul palco le nipotine e infine sua madre, la novantenne Adele Zerilli («Solo tu sai quanto desideravo salire su questo palco e con quali occhi guardavo New York dall’altra parte del fiume»). La coccola, la fa ballare, la prende in braccio – ora è lei la sua bambina – infine la consegna tra le braccia di un gorilla che la riaccompagna al suo posto. C’è la stessa allegria di un veglione di San Silvestro al Madison quando il leader sfodera la sua grinta soul e esegue in un “Apollo Medley” mozzafiato The way you do the things you do di Smokey Robinson e 634-5789 di Wilson Pickett.
C’è devozione al Madison quando scandisce con una voce che non ha mai perso intensità i messaggi che ha da mandare all’America, quelli scritti nell’ultimo disco e nella canzone We take care of our own, un appello al Paese che ha tradito il patto stipulato con i cittadini dopo il Vietnam.
«Ovunque sia volata questa bandiera/Noi ci prendiamo cura di ciò che è nostro», canta il Boss, deluso come i suoi fan dalla politica moderata di Obama.E finisce con una speranza, la certezza che l’epoca di Bush – per anni avversata con dischie concertie rally- è tramontata «e che niente sarà più come prima». Salvo il rock.
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