Quando il jazz suonava libero e avventuroso

OMAGGIO A MASSIMO URBANI La musica per lui era una continua esigenza di sperimentazione, per creare sempre qualcosa di mai sentito «Massimo Urbani non è mai stato un jazzista alla moda»; «il suo è stato un tentativo di emancipazione dalla borgata, ha costruito un ponte tra piazza Guadalupe e Central Park».

OMAGGIO A MASSIMO URBANI La musica per lui era una continua esigenza di sperimentazione, per creare sempre qualcosa di mai sentito «Massimo Urbani non è mai stato un jazzista alla moda»; «il suo è stato un tentativo di emancipazione dalla borgata, ha costruito un ponte tra piazza Guadalupe e Central Park». Basterebbero queste due frasi, del batterista Ivano Nardi e del polistrumentista Marco Colonna, per dare il senso delle serate dedicate al sassofonista romano morto nel ’93: To Max with Love. Omaggio a M.Urbani” organizzate presso tre club capitolini; Fanfulla, Najma e 28 Divino jazz). Di mezzo non ci sono nessuna ricorrenza particolare nè cerimonia istituzionale: tutto nasce da un’idea-esigenza di Ivano Nardi, amico e collaboratore di Urbani, di raccontarne la figura soprattutto prima del successo, in quel percorso travolgente che lo vide passare, giovanissimo, dalla banda di Monte Mario ai riflettori del jazz romano, italiano ed internazionale. Così Nardi ha chiamato accanto a sé il bassista Roberto Del Piano (giunto da Milano) e il sassofonista e flautista Eugenio Colombo (in una serata sostituito da Alberto Popolla), musicisti che condivisero e convissero con Urbani; ad interagire con la musica Carola De Scipio, con la lettura di frammenti dal suo bel libro, fitto di testimonianze, L’avanguardia è nei sentimenti. Vita, morte, musica di Massimo Urbani (Stampa Alternativa 1999).
Molti musicisti nel pubblico per il live set al 28 Divino jazz, a riprova di quanto la comunità del jazz ricordi e senta la presenza di Max, sia chi l’ha conosciuto sia chi l’ha scoperto dai dischi e dai racconti dei compagni di strada dell’altosassofonista. È il caso di Marco Colonna le cui riflessioni sono state lette da un assorto ed emozionato Ivano Nardi in apertura di recital; vi si parlava, fra l’altro, della sensazione di vivere tutti in un’unica periferia, dell’incontro con il «suono» di Urbani e della sua esigenza di suonare sempre qualcosa ««che non hai sentito»». Nardi, dal canto suo, ritiene gli anni ‘romani’ del sassofonista, ovvero i ’70, il periodo più bello da un punto di vista umano, creativo, spirituale. Come ricordarli? Non replicando la musica di Max ma creando un jazz libero e avventuroso. I tre jazzmen ci sono riusciti sviluppando atmosfere diverse, combinazioni timbriche variegate, quadri sonori spesso informali quanto densi di passione e pathos. Eugenio Colombo ha suonato l’alto senza mai imitare Urbani, a volte usandolo insieme al soprano, altre sfruttandone gli elementi percussivi. I suoi fondali e i suoi assoli, taglienti come lame o morbidi come velluto, hanno note cristalline o terrose ed un eloquio sempre ispirato, che ingloba sonorità etniche e lessico free. Roberto Del Piano si muove con empatica sensibilità nel discorso collettivo; capace di carica ritmica come di lavorio timbrico, ha un suono personale e saturo, di grande vigore. Nardi è batterista-percussionista che unisce al timing un senso costruttivo del ritmo, una capacità di generarlo da qualsiasi parte della batteria o oggetto, tutto mediante una tensione fortemente narrativa. Unite i tre piani agli squarci di vita raccontati da Carola De Scipio e si avrà un’idea della lunga serata.

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