Primo Levi, cadere e rialzarsi è la lezione di Auschwitz

 A venticinque anni dalla morte, due convegni internazionali (uno si è svolto a Roma, il secondo inizia domani a Parigi) e due libri recenti ci restituiscono un ritratto di Primo Levi che per molti lettori italiani risulterà  sorprendente.

 A venticinque anni dalla morte, due convegni internazionali (uno si è svolto a Roma, il secondo inizia domani a Parigi) e due libri recenti ci restituiscono un ritratto di Primo Levi che per molti lettori italiani risulterà  sorprendente.

Philippe Mesnard, professore di letteratura comparata (con il suo Primo Levi, le passage d’un témoin, Fayard, pp. 500, 25,40) rilegge Levi cercando di mettere in tensione la scrittura e la vita, per indagarne i punti di rottura, sottolinearne i momenti di contatto o di frizione, fino a tracciare quel ponte che spesso ha trasformato lo scrivere e il testimoniare di Levi in una modalità che gli ha consentito di vivere, accogliendo dentro di sé l’umanità dopo Auschwitz. La sua forza era proprio questa: essere uomo tra gli uomini ad ogni costo, anche quando l’essere uomo (come gli accadde nel lager, o nelle poche settimane vissute in montagna tra i partigiani) doveva sembrargli impresa quasi impossibile. Fino al punto estremo di rottura, sottolinea Mesnard: la caduta. L’uomo che ha sofferto l’esperienza del lager racchiude in sé, inscritto nel suo corpo e nello spirito, la traccia del degrado, di cui abitualmente facciamo esperienza solo (e non sempre) a tarda età, avvicinandoci alla morte.
Il sopravvissuto, continua Mesnard, non ha soltanto attraversato un mondo di morti viventi da cui è uscito, forse per sola fortuna, ma ha potuto fare, in modo insolito, l’esperienza della fine fisica dell’essere umano, del degrado del suo corpo, insieme dell’invecchiamento e della regressione. Ha visto la fine davanti a sé prima che il tempo lo accompagnasse gradualmente alla caduta. E, al di là e al di sopra d’ogni progetto di vita, come un «musulmano» redento (musulmani erano gli uomini e le donne del lager, vivi ma senza più vita), incapace di reagire, ha scelto.
La caduta, appunto. Il vuoto che lo ha rincorso dal momento del suo arresto ad Aosta, del suo trasporto a Fossoli, del suo lungo viaggio verso Auschwitz, del ritorno a Torino e dei suoi tanti viaggi da scrittore (l’ultimo importante negli Stati Uniti).
La caduta: un togliersi dal mondo, che non è contro la vita e il mondo ma che sembra piuttosto un cedere al vuoto, come tante volte aveva fatto ad Auschwitz, reagendo ogni volta; uno scendere in basso, per poi risalire ancora e vivere da uomo la tragedia di essere uomo dopo Auschwitz.
Questo «distaccarsi dalla negatività» che imprime alla scrittura di Levi i lineamenti di una «salvazione», collocando la sua prima opera narrativa e testimoniale «verso l’estremo di segno positivo, pur sapendo che nel migliore dei casi riuscirà soltanto a sfiorarlo», è punto di partenza anche del lungo e ricco commento che Alberto Cavaglion ci propone alla nuova edizione, a cura del Centro Internazionale di studi Primo Levi, di Se questo è un uomo (Einaudi, pp. XVI-264, € 20). Tra l’altro, la ricerca ventennale di Cavaglion ci mostra come sia insostenibile la leggenda della «spontaneità» che avrebbe guidato Levi nella stesura del suo primo libro. E scavando «dentro la ricca miniera letteraria dalla quale provengono molte parole» ed espressioni del racconto leviano; riscoprendo la fitta trama delle citazioni implicite ed esplicite e degli autori che il giovane chimico, di ritorno dal lager, nasconde nel suo scrivere, ritroviamo un testo dove la scoperta delle profondità dell’animo umano passa anche attraverso la mediazione dei classici e della grande letteratura.
Come se per dire la vergogna e l’orgoglio di essere uomo dopo Auschwitz, come se per raccontare la «zona grigia» in cui vivono i sommersi e i salvati, si dovesse per forza ricorrere al pensiero più alto, al gesto di riscossa che passa dalla civiltà dell’Occidente. Una sorta di riscatto di quella stessa civiltà dalla quale avevano pur trovato origine i centri di sterminio e i lager. Che uomini come lui, scrive Todorov, abbiano abitato questa terra, che abbiano saputo resistere alla contaminazione del male, «ecco ciò che diventa a sua volta una fonte di incoraggiamento per gli altri».

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