No Tav, il referendum necessario

Supponiamo per un attimo che la questione Tav debba considerarsi, dal punto di vista dell’osservanza di tutte le procedure imposte dal quadro della democrazia rappresentativa, definitivamente chiusa. Nonostante questo una classe politica responsabile dovrebbe fermarsi a pensare e provare a guardare le cose in una prospettiva diversa da quella, troppo comoda e troppo opportunistica per essere all’altezza del momento, di chi, trincerandosi dietro il dato formale, ripropone il copione stantio della fermezza.

Supponiamo per un attimo che la questione Tav debba considerarsi, dal punto di vista dell’osservanza di tutte le procedure imposte dal quadro della democrazia rappresentativa, definitivamente chiusa. Nonostante questo una classe politica responsabile dovrebbe fermarsi a pensare e provare a guardare le cose in una prospettiva diversa da quella, troppo comoda e troppo opportunistica per essere all’altezza del momento, di chi, trincerandosi dietro il dato formale, ripropone il copione stantio della fermezza.
Ci sono almeno due buone ragioni per guardare alla vicenda No Tav con occhiali differenti da quelli del custode della legalità e dell’ordine pubblico. La prima è che la crisi della democrazia rappresentativa è così avanzata da rendere legittimo l’interrogativo in ordine alla sua stessa sopravvivenza. La democrazia “reale” soffre perché si sono prosciugate le fonti della sua legittimazione, a cominciare dai partiti politici, organismi ormai in stato comatoso: e anche l’esperienza del governo tecnico è molto indicativa di un’impasse di fronte alla quale non si può far finta di nulla, senza per questo necessariamente gridare al golpe.
La seconda ragione è strettamente intrecciata con il tema dei beni comuni. Vi sono delle decisioni che, a causa dell’impatto ambientale, concentrano le loro esternalità negative su un determinato territorio il quale, dall’attuazione di quella decisione, rischia di vedere profondamente ed irreversibilmente modificata la propria fisionomia: e ciò a fronte di benefici (ad es., nel nostro caso, un collegamento superveloce con la Francia) che, ove pure vi fossero, sarebbero goduti da una platea assai più ampia di soggetti. Ora, non mi sembrerebbe così bizzarro immaginare che, in situazioni di questo genere, la legge adottata dal Parlamento venisse sottoposta a un referendum confermativo riservato ai soli abitanti del territorio sul quale le conseguenze più devastanti di quella decisione sono destinate a scaricarsi, un po’ sulla falsariga di quello che l’art.138 Cost. prevede, sia pure solo in via eventuale, per le leggi di revisione costituzionale.
Insomma il territorio, per un data comunità, rappresenta un bene comune: sicché, in casi del tipo di quelli dianzi evocati, la volontà generale espressa dai rappresentanti del popolo nelle forme della democrazia rappresentativa andrebbe integrata da un surplus di volontà generale espressa in forma diretta dalle popolazioni coinvolte dalla decisione. Certo, non possediamo oggi un dispositivo istituzionale idoneo a metter capo a una decisione giuridicamente vincolante: tuttavia, a parte l’indubbio effetto di moral suasion che l’esito della consultazione produrrebbe nei confronti dei vari attori, si potrebbe immaginare una sorta di gentlemen’s agreement, l’inosservanza del quale attiverebbe meccanismi di responsabilità politica. Sposando questo approccio, la No Tav da problema si trasformerebbe in opportunità, aprendo la strada ad una stagione di riforme costituzionali che vadano anche nella direzione di un ampliamento degli strumenti di democrazia diretta e non soltanto, come accade da venti e più anni, di un rafforzamento dell’esecutivo e di una brutale semplificazione della rappresentanza politica, obiettivi perseguiti in modo maniacale senza che l’efficienza del nostro sistema ne abbia significativamente guadagnato.

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