La deriva ungherese verso «il bonapartismo»

Budapest. Per la filosofa àgnes Heller definire il premier Orbà n e il suo partito Fidesz «fascismo e autoritarismo» non convince: «È un fenomeno diverso, molto diffuso in Europa». E spiega perché. I pericoli di una dittatura non vengono tanto dal Fidesz ma dal suo alleato Jobbik Il rischio peggiore per il paese sta nel revanscismo storico e nell’insularismo culturale

Budapest. Per la filosofa àgnes Heller definire il premier Orbà n e il suo partito Fidesz «fascismo e autoritarismo» non convince: «È un fenomeno diverso, molto diffuso in Europa». E spiega perché. I pericoli di una dittatura non vengono tanto dal Fidesz ma dal suo alleato Jobbik Il rischio peggiore per il paese sta nel revanscismo storico e nell’insularismo culturale

BUDAPEST. Fino al prossimo agosto, la Galleria nazionale ungherese di Budapest ospita due mostre molto significative. La prima – «Eroi, re e santi» – è dedicata alla pittura romantica della fine del diciannovesimo secolo, e celebra i periodi d’oro della storia patria; la seconda è stata affidata dal primo ministro Viktor Orbán al curatore Imre Kerényi, e illustra la nuova costituzione in vigore dall’1 gennaio 2012, legittimando con strumenti culturali rudimentali ma efficaci il nuovo corso che Orbán sta imprimendo all’Ungheria.
Per la filosofa Ágnes Heller, che incontriamo nell’appartamento con vista sul Danubio in cui vive provvisoriamente, poco distante dal Belgrad prospekt dove ha sede l’archivio Lukács – il filosofo marxista di cui è stata allieva e collaboratrice -, il nuovo corso di Orbán non è altro che una forma di bonapartismo. Un termine che l’autrice di La teoria dei bisogni in Marx preferisce ai tanti – democrazia illiberale, autocrazia, dittatura – con cui analisti e politologi hanno definito in questi ultimi mesi l’Ungheria. Ágnes Heller sembra avere una spiegazione semplice di quel che è accaduto: «Il partito Fidesz ha vinto le elezioni del 2010, e a causa di una pessima legge elettorale ha ottenuto due terzi dei seggi in parlamento. Così, con meno del 53% dei voti totali, è riuscito a modificare l’intero quadro istituzionale del paese, facendo passare una serie di leggi che puntano a un unico obiettivo: limitare la libertà e centralizzare il potere in un unico partito o, peggio ancora, in un’unica persona». Viktor Orbán, appunto, il bonapartista. «Non mi convince chi parla di fascismo o di semplice autoritarismo – spiega Ágnes Heller -, perché siamo di fronte a un fenomeno diverso, molto diffuso in Europa: quando si stancano di una certa situazione, gli europei tendono ad affidarsi a un uomo forte, a qualcuno che pensi, decida e agisca al posto loro. Napoleone III, Mussolini, Hitler, Lenin sono stati dei bonapartisti. E con le dovute differenze, lo sono anche Berlusconi e Orbán. Uomini che credono in se stessi, convinti di essere nel giusto, di incarnare lo stato e la società. Politici che fanno ricorso a slogan e retoriche populiste, pur lavorando per gli interessi di un’oligarchia, e che i popoli europei acclamano come salvatori, senza preoccuparsi delle limitazioni della libertà che ne conseguono».
Nel caso di Orbán, le limitazioni sono evidenti: «Nell’ultimo anno e mezzo, da quando è al governo – sostiene con enfasi Ágnes Heller – in Ungheria abbiamo assistito a un progressivo smantellamento di tutti i meccanismi di equilibrio istituzionale propri di una democrazia liberale». Gli elementi a suffragio della sua tesi non mancano: la nuova costituzione e una serie di leggi approvate senza un adeguato dibattito parlamentare hanno introdotto squilibri istituzionali evidenti in ogni settore chiave, dai media all’indipendenza del ramo giudiziario a quella della Banca centrale. Tanto da spingere da una parte la Commissione europea, il 17 gennaio, ad avviare una triplice procedura d’infrazione contro il governo ungherese, e dall’altra i ministri delle finanze dell’Unione europea a votare – il 13 marzo – il congelamento dei 495 milioni di euro del fondo di coesione destinati all’Ungheria. Per uscire dal buio periodo che sta attraversando, l’Ungheria non dovrebbe però fare troppo affidamento sulla Ue, sostiene Ágnes Heller: «Orbán in patria dichiara di essere vittima di una congiura, di voler resistere agli attacchi dei poteri forti internazionali. Per questo occorre puntare sulle nostre forze, cercando di far emergere la verità: Orbán è un pessimo politico, finito in una vera e propria impasse. Da una parte c’è la bancarotta economica, dall’altra una crisi politica». Il dato preoccupante, puntualizza, è che a guadagnare dall’inettitudine in campo economico e dagli eventuali “cedimenti” di Orbán nei negoziati con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale «non saranno le forze liberali e di sinistra, ma la destra estrema, in particolare il partito Jobbik».
Fondato nel 1988 con il nome di “Alleanza dei giovani democratici” (Fiatal Demokraták Szövetsége), tra i promotori nel 1989 di un cambio di regime, con il tempo il “movimento per un’Ungheria migliore” è finito per acquisire una chiara fisionomia da partito di estrema destra, rifacendosi – secondo il politologo Andrew Arato, docente alla New York University – più alla tradizione nazista ungherese che alla destra europea. Oggi Jobbik è una realtà importante nel panorama politico ungherese, e ha imparato a giocare il doppio ruolo di spalla e spina nel fianco del partito Fidesz, come spiega Ágnes Heller: «La forza di Jobbik sta nel dilettantismo del partito al governo: le politiche economiche producono danni per la povera gente, proprio quella che Jobbik mobilita con slogan nazionalisti e apertamente razzisti». Tra Jobbik e Fidesz c’è dunque antagonismo elettorale, ma anche una pericolosa e opaca area di contiguità, che si manifesta nell’ancoramento comune «a una forte visione conservatrice, e nell’appello alla classica triade “Dio, Patria, Famiglia”». Con l’adozione della nuova costituzione, che sostituisce quella ad interim del 1989, la retorica si è tradotta in chiari provvedimenti legislativi. Nella “Dichiarazione di cooperazione nazionale” che fa da preambolo alla costituzione, per esempio, si eleva «l’indissolubile nazione ungherese» a vero e proprio soggetto costituzionale, riconoscendo «la famiglia e la nazione» come «cornice principale della nostra coesistenza» e attribuendo alla cristianità un ruolo chiave «nel preservare la nazione».
Per Ágnes Heller, è un evidente tentativo di diffondere «una mitologia della famiglia» e di attuare «una sacralizzazione della politica, con il riferimento a un’idea di cristianità molto circoscritta». Un tentativo che le forze liberali e di sinistra, troppo frammentate, non riescono a contrastare.
Anche Bitó László vede nell’eccessiva frammentazione delle forze dell’opposizione una delle ragioni del successo di Orbán. Professore emerito di fisiologia oculare alla Columbia University, scrittore molto stimato in Ungheria, Bitó László è uno degli intellettuali più convinti della «necessità di far dialogare le forze progressiste e liberali del paese, affinché possano ritrovare l’unità». Per farlo, da quando è tornato a Budapest dopo una lunga permanenza negli Usa, dove è approdato in seguito alla rivoluzione del ’56, organizza degli incontri domenicali nel suo elegante appartamento di Buda, dove lo incontriamo. «E’ vero – sostiene replicando all’amica Agnes Heller -, in Ungheria c’è gente a cui non piace pensare, che cerca un uomo da ammirare e che combatta per la patria, e Viktor Orbán con i suoi toni aggressivi risponde a questa esigenza. Il suo principale obiettivo è creare un senso di apatia politica generalizzato». Come Ágnes Heller, anche Bitó László diffida delle scorciatoie tassonomiche dei giornalisti, che parlano di un governo dittatoriale, anche se ne ammette il rischio: «Il governo Fidesz non diventerà mai una dittatura, ma ha introdotto provvedimenti che in futuro potrebbero essere usati per attuarla». Prima ancora che delle riforme costituzionali e delle «tante leggi approvate con metodi contrari agli standard democratici occidentali», Bitó László è preoccupato del clima culturale che si respira nel suo paese. «I miei timori maggiori sono rivolti alla destra estrema, al partito Jobbik, che non nasconde più il suo antisemitismo e che, secondo gli ultimi sondaggi, è sostenuto dal 30% dei giovani». Un dato allarmante, che può perfino peggiorare: «La propaganda governativa presenta Orbán come il campione della sovranità ungherese contro il colonialismo occidentale. Che succederà quando Orbán risponderà alle richieste europee, dimostrandosi troppo debole agli occhi dell’elettorato? La destra ne uscirà rafforzata». D’altronde, spiega, ogni pressione esterna non fa che aumentare il nazionalismo, mentre i partiti conservatori hanno una lunga storia a cui attingere, per alimentare il sacro fuoco della difesa della patria: «In Ungheria c’è una ferita profonda, riconducibile al trattato di Trianon, firmato a Versailles nel 1920 dopo la prima guerra mondiale», con cui il regno d’Ungheria, parte dell’Impero austro-ungarico, venne privato di ampi territori in cui vivevano minoranze ungheresi. Sotto questo punto di vista, la propaganda nazionalista e ultranazionalista non farebbe altro che incidere nuovamente la carne ancora viva di quella ferita, appellandosi all’idea della “Grande Ungheria”.
Sta qui, nel revanscismo storico e nell’insularismo culturale, il pericolo peggiore dell’Ungheria di oggi. A sostenerlo sono András Arató e György Bolgár, il direttore e la “voce” più conosciuta di Klubradio, la radio indipendente che il governo sta cercando di far chiudere (e che pochi giorni fa ha ottenuto una vittoria giudiziaria). «Molti ungheresi – ci dice György Bolgár – ritengono ancora di essere i legittimi “proprietari” dei territori persi con il Trattato di Trianon. Il partito di Fidesz asseconda e allo stesso tempo fomenta questi sentimenti. Nessuno dice di voler modificare i confini ungheresi, ma tutti alludono più o meno apertamente alla Grande Ungheria di un tempo. Una troupe televisiva – continua Bolgár – ha scoperto che, quando era all’opposizione, lo stesso Orbán aveva sulla macchina degli adesivi che raffiguravano la Grande Ungheria». Per András Arató è proprio in questa equivoca zona di confine tra i due partiti che risiedono le maggiori responsabilità di Orbán: «Se Fidesz non dichiara apertamente che le idee dei movimenti di estrema destra sono illegittime, la gente tenderà a dargli credito. Per ora, le scelte del governo Orbán hanno demolito alcune istituzioni liberali, edificando le fondamenta di un regime autocratico. L’edificio è stato costruito, ma gli ungheresi ancora non sono entrati a viverci dentro. Non è detto che lo facciano. Ma l’edificio è lì. Bisogna assicurarsi che continui a rimanere disabitato», conclude András Arató.
*Il testo integrale del reportage verrà pubblicato nel prossimo numero della rivista Lo Straniero

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