Solo Giolitti ha resistito alle pressioni della Fiat. Anche il Duce scese a patti. Quando le auto giapponesi hanno preso piede, Torino ha conservato il 60-70% del mercato. Gli stabilimenti di Melfi e Termini Imerese finanziati da contributi pubblici
Solo Giolitti ha resistito alle pressioni della Fiat. Anche il Duce scese a patti. Quando le auto giapponesi hanno preso piede, Torino ha conservato il 60-70% del mercato. Gli stabilimenti di Melfi e Termini Imerese finanziati da contributi pubblici
TORINO – Quando nei tumulti del “biennio rosso” 1919-1920 gli operai occuparono le fabbriche e il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, che una sentenza compiacente e la Prima guerra mondiale avevano rimesso in sella dopo lo scandalo bancario del 1908, chiese a Giovanni Giolitti un deciso intervento del governo, l´anziano leader piemontese, rispose con una battuta: «Benissimo, vuol dire che darò ordini all´artiglieria di bombardare la Fiat». A mettere ordine ci pensò poi il fascismo con il quale il senatore Agnelli ebbe alterni rapporti, pur riuscendo a farsi ascoltare nei momenti decisivi.
Nel ventennio della sua presidenza dal 1946 al 1966, Vittorio Valletta non fu da meno. Il “professore” si vantava di non aver frequentato le stanze romane del potere. Ma le poche volte che ci andò fu per ottenere dai governi democristiani il disco verde per le scelte della Fiat. Roma, per esempio, non ostacolò mai l´emigrazione massiccia dal Sud Italia e dal Veneto con quel che essa costò a Torino tra gli anni Cinquanta e i Settanta. E non fu tutto. Lo strapotere della Fiat sui governi di quegli anni è parte della storia industriale dell´Italia: lo esercitò Valletta e, con metodi diversi, l´Avvocato. Negli anni in cui si fece strada il pericolo dell´invasione di auto straniere, soprattutto giapponesi, Torino ostacolò a lungo questo processo, riuscendo a conservare quote di mercato del 60-70 per cento. Quando fu costretta ad abbassare la guardia Cesare Romiti, indicando il modello del Far East, disse: «Dobbiamo fare come i giapponesi».
Nel 1969, presidente da tre anni Gianni Agnelli, la Fiat “comprò” per cento lire simboliche la Lancia senza che il governo di centro sinistra muovesse un dito per salvaguardare l´autonomia della celebre casa torinese. Sedici anni dopo ci fu l´annessione dell´Alfa Romeo. Alla vigilia della conclusione del negoziato con l´Iri di Romano Prodi, a una domanda sull´interesse della Fiat al Biscione, l´Avvocato rispose: «L´unica rossa che conosciamo e che ci interessa è la Ferrari». Due giorni dopo la Fiat ebbe la meglio sulla Ford diventando padrona dell´Alfa a un prezzo che non fu mai completamente saldato.
Al Sud la Fiat ci andò, quando dopo l´autunno caldo a Torino e dintorni la situazione era diventata delicata. Nel 1970 approdò a Termini Imerese. Il luogo non era il più adatto per un impianto, ma i contributi del governo e della Regione siciliana furono tali da mettere in ombra questa inadeguatezza che sarà pagata poi a caro prezzo. Nei primi anni Novanta, lo sbarco a Melfi venne salutato come una scelta meridionalista. In realtà anche in questo caso il conto venne saldato con finanziamenti pubblici. «Abbiamo aspettato molti anni per andare in Meridione ma siamo contenti di averlo fatto», commentò Agnelli.
Con la Confindustria, che pilotò a lungo con la presidenza dell´Avvocato e poi con “missi dominici” di sua emanazione, la Fiat romitiana ebbe mano libera su contratti di lavoro e soprattutto sulla politica economica di governi che furono tenuti all´oscuro di scelte quali l´ingresso nel capitale della società di un alleato come Gheddafi. Il resto il Lingotto lo fece con il “salotto buono” di Mediobanca anche se alla fine neppure questo salvò il gruppo dalla crisi di fine secolo. C´è chi sostiene che negli anni il gruppo torinese abbia ottenuto dai governi qualcosa come 200 mila miliardi di lire: un conto difficile da accertare. E´ sicuro che il contratto di programma del 1988 riversò nelle sue casse oltre 6 mila miliardi di lire sotto forma di contributi in conto capitale e in conto interessi, mentre nell´ultimo decennio del secolo scorso arrivarono a Torino altri 2 mila 500 miliardi di lire sotto forma di esenzione di imposte, cassa integrazione, prepensionamenti e mobilità.
Negli anni Novanta venne inaugurata anche la politica della rottamazione. La Fiat di Romiti aveva manovrato a lungo con la leva della svalutazione e della cassa integrazione che i governi di un moribondo centro sinistra e quelli che seguirono adottarono supinamente senza mai dare al Paese una seria politica industriale. La novità della rottamazione fu a lungo una ciambella di salvataggio. C´era ancora quando per salvare una Fiat moribonda, nel 2004, arrivò al Lingotto Sergio Marchionne che per un bel po´ di tempo non disdegnò quell´aiutino pubblico elargito dai vari governi, compresi quelli presieduti da Berlusconi che con Torino non ebbe mai rapporti di amicizia e spesso lasciò fare disinteressandosi. Anzi. Quando si cominciarono a sentire gli effetti della grande crisi fu lui a dire perentoriamente: «O il governo rifinanzierà i sostegni al rinnovo del parco auto circolante o in Italia chiuderanno alcune fabbriche». Tutto questo appena quattro anni fa. Ma poi cambiò idea e optò per il gran rifiuto: «Siamo contrari alla rottamazione che, dopotutto, in Italia è utilizzata al 70 per cento dalle case straniere». Lo ha ripetuto anche di recente, aggiungendo di non «aver mai chiesto nulla al governo».
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