Tim Burton. “Da bambino a consolarmi ci pensava Frankenstein: era come me, inadeguato e incompreso”. Mentre Parigi lo celebra esponendo i disegni fantastici della sua carriera, il regista si confessa a “Repubblica”. A partire da un’infanzia difficile e da un’adolescenza solitaria: “Volete sapere chi mi ha tirato fuori da guai?”
Tim Burton. “Da bambino a consolarmi ci pensava Frankenstein: era come me, inadeguato e incompreso”. Mentre Parigi lo celebra esponendo i disegni fantastici della sua carriera, il regista si confessa a “Repubblica”. A partire da un’infanzia difficile e da un’adolescenza solitaria: “Volete sapere chi mi ha tirato fuori da guai?”
PARIGI. «imiei genitori mi hanno raccontato che prima ancora di cominciare a parlare stavo ore davanti ai film di mostri, senza averne alcuna paura. L´emozione più forte l´ho provata la prima volta in cui ho visto precipitare King Kong dall´Empire State Building. Ancora oggi quando alla fine di un film il mostro muore, mi commuovo sempre. Perché nel corso della proiezione siamo diventati amici. Da bambino mi sentivo consolato da Frankenstein: era come me, inadeguato e incompreso». Testa arruffata, i mille riccioli in battaglia, barbetta, palpebre cariche di sonno, ampi gesti che chiudono in cerchio il suo sguardo arguto, Tim Burton, stropicciato Peter Pan di 54 anni, parla e sogna, accettando di raccontarsi a Repubblica. Lo fa mentre Parigi lo celebra alla Cinémathèque Française con un´impressionante esposizione di bozzetti, scritti, storyboard da cui ha preso forma il suo cinema: una gioiosa festa di mostri, un carnevale di teneri orrori, un défilé di fantasmi e scheletri. Più che una mostra, una radiografia. «E perché non una cartella clinica?» ride Burton. «Questa mostra mi mette a nudo, registra lo stato febbrile che precede la nascita di storie e personaggi su fogli vaganti o tovagliolini di carta, tra frenesie di matite e pastelli a cera. Edward mani di forbice ha preso forma così: da un impulso a scarabocchiare la stessa figura senza sapere cosa ne sarebbe uscito. L´ho capito dopo: un personaggio cui le dita di lame impedivano ogni contatto con gli altri. Sleepy Hollow è nato invece dall´idea di opporre un personaggio razionale, tutto testa, a uno immaginifico, senza testa».
Il suo incubo più ostinato e dichiarato, nei disegni come nei film, sembra essere il luogo della sua infanzia: perché?
«Sfido chiunque a sopravvivere all´opaca banlieue hollywoodiana di Burbank, landa immobile senza cambio di stagioni. Bello e temperato tutto l´anno: questo il clima dei miei anni infantili. Ho finito per trascinarmi per ore nelle corsie del supermarket a Natale, Pasqua, Hallowen: gli scaffali con prodotti di volta in volta diversi mi sono serviti a scandire l´esistenza».
Oltre agli scaffali dei supermarket c´erano gli horror di serie B e fumetti come B.C. di Johnny Hart che le ha ispirato il suo primissimo corto animato, Cavemen. Aveva solo tredici anni…
«Fin da bambino l´immagine per me è stata un mezzo di comunicazione più spontaneo della parola. Il disegno è diventato pian piano un mezzo per esplorare il mio subconscio: l´anticamera non programmata del mio cinema. È il mio subconscio, non la mia mente, il responsabile di ossessioni con cui poi mi tocca coabitare per almeno uno o due anni, il tempo della preparazione di un film».
Fin da piccolo ha alternato matite e cinepresa.
«Come probabilmente a ogni bambino, a me è sempre piaciuto disegnare ma anche girare film in super8. Forse con perversione precoce non m´ero mai dato un obiettivo concreto in queste pratiche. Finché non ci mise lo zampino la scuola, di cui ero un pessimo allievo, assegnandomi un giorno un compito spaventoso: leggere un intero libro e trarne cinquanta pagine di commento. Non mi è mai piaciuto leggere: fin da bambino ho evitato scrupolosamente i fumetti con troppo testo. Invece della relazione scritta ho girato un super8 su Houdini, mio secondo film amatoriale, nello stesso anno di Cavemen, ma dal vivo. Senza avere scritto una riga ho preso dieci e lode. Ho capito allora che questa poteva essere la strada da percorrere: creare qualcosa di nuovo».
Magia, circo, favola nera: il suo è un universo di apparizioni oblique, più prossimo a esuberanze oltretombali, a exploit dall´aldilà che alle piattezze della vita.
«Avere a che fare con gli zombie mi viene proprio da Burbank, un ambientino da Notte dei morti viventi alla luce del giorno. Da una parte sono stato sepolto vivo dentro una cultura chiusa e puritana in cui la morte era l´argomento lugubre da scongiurare, dall´altra vivevo a due passi da una comunità ispano-messicana dove si celebrava el dìa de los muertos come un inno alla vita e gli scheletri – calaveras – erano protagonisti di feste di colore, musica e danza: un approccio più positivo ai nostri enigmi, senza tabù bigotti».
È così che hanno preso vita i suoi teschi festosi, da Nightmare Before Christmas a Mars Attacks! a La sposa cadavere?
«Si è detto spesso dei miei film che sono soltanto personali fantasmi, senza legami con la realtà. Io non faccio che immergermi nei miei sogni per aiutarmi a attraversare la quotidianità e non vedo in che cosa sogno e realtà potrebbero opporsi: sono anzi convinto che il sogno è realtà. Per questo esistono le fiabe come Alice nel Paese delle meraviglie: tutte rappresentazioni di sogni, di assoluta coerenza nel proprio universo, in frantumi quando se ne esce. In quella bolla impermeabile e immutabile di Burbank, all´ombra degli imperi Disney e Warner Bros, non potevo che essere il corpo estraneo: tutti, ben intruppati in norme e sicurezze, mi consideravano un´anomalia, un mostro. Di qui il mio rifiuto viscerale di norme e etichette».
L´isolamento è stato l´unica reazione al natìo borgo selvaggio?
«La pacatezza soporifera dei luoghi mi ha indotto a rivolte solitarie, provocazioni di humour macabro e messinscene farsesche, ispirate dai miei horror preferiti: diffondevo per esempio la voce che un disco volante era atterrato nel parco, dove avevo costruito una carcassa e tracciato impronte misteriose, o che un evaso sanguinario s´aggirava nel quartiere, dove mi facevo trovare travestito da assassino per seminare il panico».
Una sopravvivenza creativa, come a scuola?
«È stato anche un modo di difendermi da un nucleo familiare – padre, madre, fratello minore – incompatibile, moderatamente ma ineluttabilmente antifunzionale. Mio padre, al quale mi sono sempre tenacemente opposto, era addetto a un centro sportivo. Mia madre aveva un negozio, Cat´s Plus, di articoli da regalo, tutti di sembianze feline. La loro unica preoccupazione era che non diventassi un delinquente. A dieci anni ho traslocato da mia nonna. A quindici, ho cominciato a vivere da solo in uno stanzino sopra il suo garage pagandole l´affitto con i soldi racimolati lavorando in un ristorante. A sedici, sono entrato alla CalArts, la scuola per la formazione di giovani animatori fondata nel 1961 da Walt Disney».
Lei è stato il primo soggetto del suo cinema: Vincent, corto d´esordio ufficiale, stop motion di sei minuti, nell´82.
«È il mio lavoro più direttamente autobiografico, insieme a Edward e Ed Wood, i miei preferiti. È su un bambino solitario e sognatore, estraneo al mondo, posseduto da una passione gemella: Edgard Allan Poe, con le sue donne sepolte vive, e Vincent Price, star degli horror tratti da Poe. Ho voluto anche rendere omaggio a Price – maestosa voce off del mio corto – che, con Christopher Lee, Bela Lugosi, Peter Lorre, è tra i mostri che mi hanno salvato la vita, risollevandomi dalla depressione psicologica degli anni d´infanzia».
Come ne è uscito?
«Da piccolo mi sentivo un sopravvissuto, non avevo voglia di nulla, ero sempre insonnolito. Un´anemia del vivere su cui mi sono strascicato fino agli anni di lavoro alla Disney, dove avevo perfezionato una tecnica per dormire: due ore al mattino, due al pomeriggio, davanti ai miei disegni, con la matita in mano, pronto a riscuotermi e farmi vedere attivo. Trascorrevo ore e ore rinchiuso nella mia camera: mi nascondevo sotto la scrivania o nell´armadio a muro. I disegni a getto continuo e i film horror in tv erano i miei antidolorifici: mi hanno fatto uscire da una spirale pericolosa, mi hanno indicato il cammino».
Quello additato in Ed Wood? “Perché passare la vita a fabbricare i sogni di qualcun altro”?
«Quello. Ogni film è stato per me un combattimento, una sfida a Hollywood che ha sempre sospettato di me, della mia singolarità. Ho impiegato una vita per cercare di diventare un essere umano. Mentre l´America cercava di fare di me una mercanzia. Ma ho avuto anche la fortuna di incontrare maestri che mi incitavano a essere quel che ero, cioè a mettere nei disegni me stesso e non i precetti degli insegnanti. Da allora, il mio rapporto con la Disney è stato ambivalente. Le mie sequenze per The Black Cauldron non sono mai entrate nel film: il cartoon non era un granché, ma, a rivederli, i miei disegni erano abominevoli. La Disney ha poi prodotto i miei primi due corti, Vincent e Frankenweenie, ma li ha distribuiti a denti stretti e alla chetichella. Ora però la versione lunga, in stop motion, del mio Frankenstein canino del 1984 verrà tenuta a battesimo ad Halloween proprio dalla Disney».
Perché le fiabe hanno quasi sempre un che di tenebroso?
«È la loro natura. La grande letteratura per l´infanzia possiede sempre una forte dose sovversiva. È questo che mi diverte. Crescendo, dimentichiamo che quel che più ci era piaciuto nelle fiabe lette da piccoli è quel che ci aveva terrorizzato. Nelle favole si uccide molto e in modo spesso molto crudele. La tradizione popolare, la mitologia greca e persino la Bibbia sono ricolme di immagini di terribile violenza. Nessuno lo dice, ma I dieci comandamenti è uno dei più grandi film horror di tutti i tempi. E mia figlia, che ha visto la mia Alice a tre anni, si è divertita soprattutto davanti alle scene paurose. E i bambini sono sempre i migliori giudici, no?».
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