Il «caso Bo» scuote il partito-stato cinese

Bo Xilai. La rimozione nella megalopoli di Chongqing del potente boss populista del Pcc, che aspirava a un posto nella commissione permanente del Politburo, riapre giochi che sembravano chiusi. Il destino era segnato dopo che il suo ex-capo della polizia, Wang, il 7 febbraio si è rifugiato negli uffici del consolato Usa e, una volta uscito dopo 24 ore, è stato poi arrestato

Bo Xilai. La rimozione nella megalopoli di Chongqing del potente boss populista del Pcc, che aspirava a un posto nella commissione permanente del Politburo, riapre giochi che sembravano chiusi. Il destino era segnato dopo che il suo ex-capo della polizia, Wang, il 7 febbraio si è rifugiato negli uffici del consolato Usa e, una volta uscito dopo 24 ore, è stato poi arrestato PECHINO. Dopo aver dato l’addio – con l’arresto nei giorni scorsi dell’ex «sceriffo» Wang Lijun – alle campagne legge e ordine contro «mafiosi e corrotti», la megalopoli di Chongqing manda in soffitta anche i revival a base di canti rivoluzionari e ideologia maoista. Bo Xilai, il 62enne che per scalare i vertici del Partito comunista combinava vecchi slogan e stile comunicativo occidentale, è stato rimosso dalla carica di segretario locale del Pcc. Un vero e proprio colpo di grazia per il suo sogno di entrare nel Comitato permanente del Politburo, l’organismo a cui sono affidate le decisioni più importanti per il Paese, che in autunno sarà rinnovato per 7/9 in occasione del 18° congresso del Pcc. Nelle ultime ore si vocifera di un’inchiesta in corso su Bo e di una sua destituzione dallo stesso Politburo, il consesso di 25 componenti di cui attualmente fa parte.

La drammatica svolta nel «caso Bo», fino a poche settimane fa in pole position per entrare nella stanza dei bottoni, rimescola le carte nel delicato processo di transizione dei leader cinesi. Un passaggio di consegne che, dopo la sconfitta della «Banda dei quattro» nel 1976, Deng Xiaoping volle codificare in maniera che si svolgesse nel modo più ordinato e incruento possibile ma che questa volta – con la caduta di Bo – potrebbe rivelarsi più tortuoso del previsto.
La scelta del Comitato centrale di silurare Bo e di rimpiazzarlo con Zhang Dejiang (un altro membro del Politburo) è stata annunciata ieri mattina dall’agenzia di Stato Xinhua, che ha parlato di una «decisione presa dopo considerazioni riservate, basate sugli ultimi avvenimenti e la situazione complessiva».
Il populismo di Bo, che non esitava a mobilitare le masse a sostegno delle sue politiche, ha messo paura a una leadership che dopo gli eccessi del maoismo (quello vero) è tradizionalmente restia al contatto col popolo e ai personalismi? Oppure Wang, l’ex capo della polizia di Chongqing trattenuto a Pechino ufficialmente «in ferie perché stressato», dopo essere stato fermato ha rivelato qualche segreto che ha compromesso il suo ex superiore? Le due ipotesi non sono necessariamente in contraddizione.
La corsa di Bo aveva subìto una brusca frenata il 7 febbraio scorso, quando il suo ex capo della polizia si rifugiò per 24 ore nel consolato statunitense di Chengdu, il più vicino a Chongqing. Qualche giorno prima Wang – un maestro di arti marziali le cui campagne anti-crimine avevano ispirato la serie tv “Poliziotti dal sangue d’acciaio” – era stato licenziato dall’ultima carica che ricopriva, quella di vice sindaco di Chongqing. Il fatto che un suo sottoposto si sia rifugiato in una rappresentanza diplomatica Usa (alla vigilia di una visita ufficiale a Washington del vice presidente Xi Jingping) costituiva di per sé motivo di grande imbarazzo per Bo. Ma ciò che potrebbe aver determinato la fine della carriera politica di un «principino» (figlio di Bo Yibo, un veterano della Lunga marcia purgato da Mao e riabilitato da Deng), è quello che Wang potrebbe aver rivelato, magari non nella rappresentanza Usa (dove avrebbe chiesto, invano, asilo politico) ma una volta condotto a Pechino e interrogato.
Finora la ricostruzione più dettagliata dei retroscena che potrebbero aver fatto esplodere il «caso Bo» l’ha fornita il Financial Times, che ha intervistato Li Jun, milionario ed ex imprenditore riparato all’estero dopo essere stato arrestato e torturato nella Repubblica popolare. Il quotidiano britannico sottolinea che le sue testimonianze (nomi e cognomi di funzionari di polizia, luoghi degli interrogatori, etc.) «sono ritenute credibili da due esperti cinesi che hanno chiesto la garanzia dell’anonimato e dal professor Andrew Nathan della Columbia University, eminente sinologo e coeditore dei Tiananmen papers, collezione di documenti ufficiali su quella repressione». Il quadro che ne risulta è inquietante: attraverso l’uso sistematico di arresti, torture e condanne a morte, Bo e Wang avrebbero eliminato facoltosi imprenditori privati «nemici», utilizzando le ricchezze estorte a questi ultimi anche per finanziare i servizi sociali di Chongqing che hanno reso tanto ben voluto Bo tra le classi sociali più umili. Questa sarebbe l’essenza della campagna «Intoniamo i canti rossi e schiacciamo il crimine nero» lanciata negli ultimi anni da Bo e dal suo braccio destro.
Che all’interno della leadership del Pcc abbia prevalso la scelta di porre fine al «modello Chongqing» – come i suoi estimatori avevano etichettato lo stile di governo della città – era parso evidente due giorni fa, quando chiudendo la sessione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo il premier Wen Jiabao aveva criticato apertamente quell’esperimento: «Siamo in un momento cruciale: senza le riforme politiche, il paese corre il rischio di rivivere tragedie dolorose come quelle della Rivoluzione culturale».
Ora, con Wang in «ferie per stress» e il posto che avrebbe dovuto occupare Bo nel Comitato permanente del Politburo vacante, tutti si chiedono quali altri colpi di scena potrà riservare questo ricambio di leadership annunciato come calmo e scontato e partito invece con i fuochi d’artificio.

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