L’ombra lunga del populismo

«Contro il potere. Filosofia e scrittura», un libro di Giacomo Marramao per Bompiani

Metamorfosi politiche senza libertà . Oggi la presentazione del libro all’Università  La Sapienza di Roma

«Contro il potere. Filosofia e scrittura», un libro di Giacomo Marramao per Bompiani

Metamorfosi politiche senza libertà . Oggi la presentazione del libro all’Università  La Sapienza di Roma
C’è lo studio per la provocatoria Pieta di Paul Freyer a illustrare la copertina di Contro il potere. Filosofia e scrittura, di Giacomo Marramao (Bompiani, pp. 153, euro 10. Il volume sarà presentato oggi a Roma, Piazzale Aldo Moro, alle 15.30 nella Sala Lauree della Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza). Il corpo di Cristo sceso dalla croce e adagiato su una sedia elettrica: un’opera che sembra evocare le strofe di The Mercy Seat di Nick Cave & The Bad Seeds, in cui il poeta e songwriter australiano interpreta in modo sublime le visioni di un condannato a morte, con il trono di Dio trasfigurato in una sedia elettrica.
È una sorta di post-umana rappresentazione dell’ecce homo, che nel libro di Marramao è collocato tra «(paura della) morte, potere, sopravvivenza» (l’archeologia del potere ripresa da Elias Canetti) e le «bassure della vita quotidiana» narrate da Herta Müller. Perché Marramao, nel suo scandaglio di «filosofia e scrittura» contro il potere, suddivide il lavoro in due capitoli principali, tra loro in speculare dialogo. Da una parte l’immersione negli «scavi archeologici» dell’essenza del potere – alla ricerca del suo «carattere patogenetico», dinanzi all’enigma della massa – interrogati per una vita intera da Elias Canetti, spesso in dialogo con Franz Kafka, «il più grande esperto del potere» (a detta dello stesso Canetti). Dall’altra la scrittura di Herta Müller, autrice rumena di lingua tedesca, censurata nella Romania di Ceausescu e poi fuggita in Germania nel 1987, quindi premio Nobel per la letteratura nel 2009. Soprattutto la capacità con la quale Müller narra «la cifra sinistra e straniante che le relazioni quotidiane assumono nel gretto microcosmo della provincia e nell’orrido macrocosmo della sorveglianza totalitaria», anche quella democratica. Lo stesso Marramao ricorda che siamo a un passo dalla spietatezza verbale di Thomas Bernhard (in quel caso contro il mai abbastanza odiato provincialismo austriaco), comunque dentro l’orrore del Novecento, sempre pronto a riprodursi, anche nel nostro presente. Per questo nella parte finale del libro viene aggredita la nuova scena del potere e del desiderio, nell’epoca del «populismo postdemocratico».
Siamo dinanzi a due scrittori della diaspora, che oltrepassano la semplice critica del potere: Elias Canetti convinto di essere «riuscito ad afferrare questo secolo alla gola» – il Novecento – a partire da Massa e potere (1960); Herta Müller proiettata nella spietata disamina delle nuove forme del dominio, in cui il potere diviene «sistema paranoico di controllo capillare e indifferenziato». E questi due scrittori sono «custodi delle metamorfosi», con una immersione nelle profonde radici del potere (Elias Canetti e la ricezione italiana delle sue opere, reso ancora più felice dal mediatore Furio Jesi) e uno sguardo straniante sulla «normale derelizione» delle singole esistenze (Herta Müller nella narrazione del coefficiente di ansia, passività e subordinazione indotto dal potere sui propri «governati»).
In questo assalto concentrico alle origini archetipe del potere e alle sue distopie quotidiane, Giacomo Marramao ripercorre il suo itinerario intellettuale, risalendo dal formidabile Potere e secolarizzazione (ripubblicato nel 2005), al più recente Passaggio a Occidente. Perciò questo pamphlet tenta di ripensare i rapporti interni alla triade «reale-immaginario-simbolico», assumendo il nervo scoperto dell’origine comune di potere e libertà: la plurisecolare tendenza alla servitù volontaria (Etienne de La Boétie), dalla quale si prova insistentemente a fuggire rifiutando l’eterno presente delle «passioni tristi», piuttosto ripensando la politica come prassi relazionale e conflitto. È un invito a rintracciare la traiettoria che da Machiavelli e Spinoza – pensatori della libertà e della vita – ci porta ad interrogare i processi di soggettivazione che fanno tesoro della «potenza simbolica della differenza», come via di fuga dal dominio dell’identità. Un percorso che si rivolta contro le tendenze hobbesiane proprie anche di alcuni ragionamenti canettiani, per combattere le pulsioni identitarie, populiste e postdemocratiche iscritte nelle attuali débâcle dei due Occidenti – Stati Uniti ed Europa – e nello «spettacolare fallimento» della sinistra, tanto riformista, quanto radicale.
Così all’inizio del millennio sembra riavvolgersi il nastro secolare dell’«autodecostruzione» dello Stato, dalla sua crisi liberale intravista già da Santi Romano cento anni fa, fino agli sconfinamenti dopo il Leviatano (per ricordare un altro lavoro di Giacomo Marramao). Nelle geometrie spaziali non euclidee che seguono la sovranità moderna, si inserisce l’urgenza di individuare percorsi di sovversione dell’ordine esistente delle cose, che non si limitino alla fase decostruttiva del potere, ma siano in grado di fondare soggettività politiche radicalmente nuove. È un’esortazione a rilanciare la concreta utopia eretica di una critica costituente del potere, in cui una necessaria «critica della critica» vada di pari passo con il superamento dell’austera neutralizzazione tecnocratica. Tirare il filo rosso della potenza di singolarità irriducibili ai poteri, per l’invenzione di un nuovo immaginario sociale, dentro la storia millenaria delle eresie individuali e collettive. Consapevoli, per dirla ancora con Franz Kafka, che «le catene dell’umanità sofferente sono di carta da ufficio».

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