SEMBRA superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l’infelice frase sulla “paccata di miliardi”.
“Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l’articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi.
SEMBRA superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l’infelice frase sulla “paccata di miliardi”.
“Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l’articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi.
Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l´impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.
Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).
Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.
Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.
In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.
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