INDIA, BUONE NOTIZIE DAL MONDO «TRIBALE». Dalle zone della guerriglia maoista un esempio di «citizen journalism» che usa le lingue locali e viaggia sul mezzo più diffuso e democratico: il telefono. Swara è la prima voce dei «senzavoce» e l’establishment la teme
INDIA, BUONE NOTIZIE DAL MONDO «TRIBALE». Dalle zone della guerriglia maoista un esempio di «citizen journalism» che usa le lingue locali e viaggia sul mezzo più diffuso e democratico: il telefono. Swara è la prima voce dei «senzavoce» e l’establishment la teme NEW DELHI. È una questione di lingua, dice Shubranshu Choudhary. Parla del suo stato d’origine, il Chhattisgarh, nel cuore di una regione montagnosa dell’India centrale: terra di foreste, miniere, e di popolazioni «tribali» – così l’India definisce i suoi nativi, gli adivasi (letteralmente «abitanti originari»). «In queste zone rurali, finché resti lungo la strada principale si parla hindi. Ma se ti addentri anche solo un paio di chilometri, sentirai solo la lingua locale», ci dice. «Qui l’hindi ha la stessa funzione sociologica che ha l’inglese nella società indiana nel suo insieme: chi lo parla è inserito in una struttura di potere, chi non lo parla non ha voce».
Ecco una nuova prospettiva sul conflitto che qui ha uno dei suoi punti caldi. Le zone montagnose del Chhattisgarh infatti sono considerate una roccaforte della ribellione armata di ispirazione maoista emersa alla fine degli anni ’90 in un’ampia fascia dell’India rurale. Un conflitto esasperato dalla corsa a sfruttare le risorse naturali di cui quelle montagne sono ricche: miniere di ferro, carbone, bauxite, e di conseguenza acciaierie, raffinerie, centrali termiche. L’avanzata industriale ha espropriato terre e inasprito ingiustizie antiche. Su questo terreno si è diffusa la ribellione armata, a cui lo stato ha risposto per lo più in termini militari.
Come giornalista e producer della Bbc, Shubranshu Choudhary ha riferito spesso sui maoisti. Finché si è convinto che la premessa del conflitto è proprio un problema di comunicazione. «Non ci sono giornalisti adivasi nei grandi media. I reporter vengono dalle grandi città. Arrivano in un villaggio e chiedono: chi parla hindi? Se qualcuno lo parla, quello diventa il solo interlocutore». Le autorità dello stato fanno altrettanto: cento milioni di adivasi parlano lingue che la mainstream India non capisce. I pochissimi («forse il 2%») che parlano hindi sono «cooptati a rappresentare tutti gli adivasi. Ma gli altri, la stragrande maggioranza, non hanno voce».
Del resto in Chhattisgarh i più importanti media locali sono proprietà di imprenditori con interessi nell’industria mineraria, il carbone, l’acciaio: è fin troppo ovvio da che parte stanno. Così, tolta una piccolissima frangia di attivisti sociali, gandhiani o chiese, chi dà ascolto agli adivasi sono proprio i ribelli: «Ciò che hanno fatto i maoisti è stato imparare le lingue tribali, per parlare con gli adivasi e capire cosa dicono», fa notare Shubranshu Choudhary.
Lasciato il lavoro alla Bbc, Choudhary è dunque tornato in Chhattisgarh per lavorare su quel gap di comunicazione. Nel 2004 ha fondato una mailing list per diffondere notizie dal terreno: ma nelle regioni rurali l’accesso a internet resta limitato, in molti villaggi manca perfino l’elettricità, e un notiziario on-line raggiunge solo un’audience urbana. E poi, spiega, «gli adivasi trovano più ovvio parlare: nella società tribale la comunicazione è essenzialmente orale». Una radio sarebbe l’ideale per raggiungere comunità sparse in grandi regioni spesso remote: ma al contrario della tv, in India la radio resta monopolio statale. «Hanno criminalizzato la comunicazione orale. E l’emittente di stato, All India Radio, nei suoi 64 anni di vita non ha trasmesso un solo minuto di informazione in lingue tribali».
Non internet, non la radio. Ecco l’idea: il telefono. Al contrario del computer, i cellulari sono ovunque. Anche nel più sperduto villaggio indiano c’è qualche telefonino, la copertura è buona e il costo delle telefonate è il più basso al mondo. «È il mezzo più diffuso, quindi più democratico», fa notare il giornalista. Così nel febbraio 2010 è nato forse l’unico servizio al mondo di notizie via telefono. Si chiama Swara («voce», nella lingua franca tribale). È un voice portal: per accedere basta fare un numero di telefono e si può registrare un messaggio («premere 1») o ascoltare gli altri messaggi («premere 2»). Dall’altra parte c’è un server che riceve le chiamate e un «moderatore», in effetti un piccolo team, che verifica le notizie e fa un editing prima di ridiffonderle con traduzione in hindi.
Dietro l’assoluta semplicità c’è una tecnologia assai innovativa, sviluppata con l’aiuto di un professore del Mit, il Massachussetts Institute of Technology: un modello di gruppo via telefono, sviluppato usando la tecnologia voice.xml che lega un server a molte linee telefoniche. Oggi si può accedere a CGNet Swara attraverso internet o Facebook, o iscriversi alla lista e ricevere via e-mail un digest quotidiano di notizie in hindi (e spesso in inglese); ma soprattutto si può accedere via telefono: premi 2 e ascolterai notizie, racconti, messaggi con la voce di chi li ha lanciati. «Ora gli adivasi hanno un canale per diffondere notizie e esprimere opinioni nella propria lingua», dice Choudhary.
Un notiziario-tipo contiene denunce, notizie, piccoli reportage, a volte canzoni o poesie. Un giorno sentiamo che un lavoratore adivasi è morto di silicosi, o che un certo municipio rurale si oppone alla requisizione di terreni per un’industria. A volte sono storie individuali che però segnalano fatti ricorrenti: un bracciante che non ha avuto la sua paga, una vedova della comunità nativa Baiga che aspetta da due anni il risarcimento per il marito morto mentre raccoglieva foglie di tendu – quelle usate per i bidi, le sigarettine indiane – per un’azienda locale. Ci sono denunce su questioni di governance: scuole dove non c’è mai l’insegnante, salari non pagati, ospedali e ambulatori di villaggio in pessime condizioni, casi di corruzione. Un attivista riferisce che la polizia ha attaccato la folla che protestava contro una miniera di carbone. Piccoli appelli: nel tal villaggio non abbiamo una pompa a mano per tirare l’acqua dal pozzo. Una donna canta una canzone dedicata alle compagne di lavoro.
Un caso di citizen journalism. Quando hanno lanciato la piattaforma Swara (con il sostegno del International Center for Journalists), Choudhary e i suoi collaboratori hanno anche avviato un programma di training per giovani reporter delle zone rurali, istruiti a raccogliere testimonianze con il loro telefonino e sintetizzare notizie e servizi in un paio di minuti. Ne è uscita finora una ventina di «reporter a piedi scalzi» che oggi sono l’ossatura di CGNet Swara – anche se non sono gli unici a contribuire, perché molti hanno cominciato a chiamare spontaneamente. In totale, dal febbraio 2010 al 31 dicembre 2011 Swara ha ricevuto oltre 74mila telefonate e pubblicato quasi 1.200 messaggi (come in molti social media infatti la gran parte delle chiamate è per ascoltare). Nel solo 2011 sono andati in rete 756 messaggi, di cui 703 di persone che si sono identificate con nome e cognome. Oggi Swara «viaggia» al ritmo di 300 telefonate al giorno.
Per quanto piccolo, l’esperimento ha segnato una vera novità mediatica – e politica. Tra i 21 reporter formati da Swara infatti 5 sono adivasi, 2 dalit (i «fuoricasta», lo scalino più basso della società hindu) e 6 di altre caste arretrate; tra i 147 contributori spontanei più assidui almeno 26 sono tribali. Insomma: per la prima volta degli adivasi parlano per se stessi. Questa rete sul campo inoltre fa emergere notizie di solito ignorate dai grandi media, a volte con effetto immediato: «Abbiamo visto denunce trasmesse da Swara riprese dai giornali, e magari poi le autorità hanno dovuto occuparsene», dice soddisfatto Choudhary.
Il caso più clamoroso risale al marzo 2011, quando uno dei giovani reporter adivasi addestrati da Swara ha avuto notizia di un raid delle forze di sicurezza insieme a milizie irregolari in alcuni remoti villaggi della regione meridionale del Chhattisgar, nel cuore di quella che è considerata roccaforte maoista. Il reporter ha registrato testimonianze di terribili violenze commesse dai paramilitari – case bruciate, uomini uccisi, donne violentate. Rilanciata dalla rete via telefono, la notizia è arrivata alla stampa nazionale, che ha mandato i suoi inviati: ne è scoppiato uno scandalo, il locale capo della polizia è stato trasferito.
Poco dopo però il reporter di Swara, Lingaram Kodopi, è stato arrestato con l’accusa di lavorare per i maoisti: accuse pretestuose, dicono i suoi difensori, ma intanto resta in galera. Altri citizen journalist hanno subito pressioni e minacce, dice preoccupato Choudhary. «Lingaram è il primo adivasi in quella zona remota che diventa giornalista professionale: e che i tribali abbiano una voce indipendente era un pericolo per l’establishment». Sarà per questo che il server su cui viaggia Swara è stato chiuso ben tre volte, con varie scuse: «Non ci sono leggi chiare per chiuderci, allora cercano pretesti formali», conclude Choudhary: «Anche per questo siamo molto cauti, diffondiamo solo notizie verificate. Molti, in posizioni altolocate, sarebbero felici di ridurci al silenzio».
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