La società  liquida di fine Medioevo

Da prospettive differenti «Lo sterco del diavolo» di Jacques Le Goff, «Rinascimenti italiani» di à‰lizabeth Crouzet-Pavan e «Il predominio dell’Occidente» di Daniel Headrick aiutano a inquadrare i fermenti che nella seconda metà  del XIV secolo videro l’Europa risollevarsi dopo un cinquantennio segnato da peste e carestie Nel 1965 Carlo Maria Cipolla dimostrava brillantemente come fosse merito della tecnologia, delle «vele» e dei «cannoni», non di una superiorità  morale o culturale, se l’Occidente era riuscito a imporre il suo potere sul resto del mondo.

Da prospettive differenti «Lo sterco del diavolo» di Jacques Le Goff, «Rinascimenti italiani» di à‰lizabeth Crouzet-Pavan e «Il predominio dell’Occidente» di Daniel Headrick aiutano a inquadrare i fermenti che nella seconda metà  del XIV secolo videro l’Europa risollevarsi dopo un cinquantennio segnato da peste e carestie Nel 1965 Carlo Maria Cipolla dimostrava brillantemente come fosse merito della tecnologia, delle «vele» e dei «cannoni», non di una superiorità  morale o culturale, se l’Occidente era riuscito a imporre il suo potere sul resto del mondo. Ma basta questa tecnologia a dominarlo, soprattutto oggi? Parte da preoccupazioni molto contemporanee Daniel R. Headrick nel suo Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo (Il Mulino 2011, pp. 408, euro 29), in particolare dalle guerre «asimmetriche» intraprese dal suo paese, gli Stati Uniti, negli ultimi decenni: il Vietnam, i due conflitti in Irak, l’Afghanistan. Guerre che hanno messo e mettono a confronto combattenti male armati con eserciti ultramoderni e ipertecnologizzati. Eppure i risultati sono sotto gli occhi di tutti: si tratta di conflitti che non possono essere vinti, nonostante la tattica dei bombardamenti a tappeto impiegata dagli americani e dai loro alleati.
Processi di rilancio
Le tecnologie insomma sono importanti, ma non sufficienti; e anche in passato, sostiene Headrick, sono servite dove le condizioni rendevano possibile il loro pieno utilizzo; altrove, come nell’odierno Afghanistan, seminano morte e distruzione, ma non vincono la guerra. È una storia della tecnologia militare al servizio dell’imperialismo, quella dello storico statunitense, che mai cede il passo a discorsi sui meriti e le ragioni di coloro che tali guerre hanno mosso e muovono: al lettore, insomma, il compito di giudicare. Il libro parte dalla conquista europea delle rotte oceaniche, ossia dall’epoca a cavallo tra Medioevo e prima età moderna, ovvero dal Rinascimento, come a partire dalla fine dell’Ottocento si è soliti chiamare i secoli tra la fine del Trecento e il Cinquecento. Si tratta di una periodizzazione che, come sempre, è arbitraria, ma che ha al suo interno alcuni caratteri di uniformità. In particolare, l’Europa della seconda metà del XIV secolo usciva da un cinquantennio drammatico, iniziato con ricorrenti carestie e culminato nella Peste nera del 1347-50. Apparentemente distrutta e spopolata, riuscì invece a risollevarsi rapidamente e ad avviare un processo di stabilizzazione e rilancio che l’avrebbe preparata alla fase di espansione oceanica della quale scrive Headrick.
Quali le cause di questa rapida ripresa? Intanto, la lunga e possente febbre sociale, economica e spirituale che aveva sconvolto la società europea del Trecento non mancò di provocare una risposta da parte dei ceti dirigenti: risposta che si configurò come un vero e proprio riassetto economico e produttivo e del quale la concentrazione dei beni fondiari in un numero minore di mani e, quindi la riduzione numerica della piccola proprietà agricola, è solo un aspetto. Dopo i grandi fallimenti a catena degli anni Quaranta, le case bancarie impararono a darsi una struttura più flessibile, in modo che il fallimento di una qualche filiale non comportasse il cedimento dell’intero complesso.
Nuovi ceti dirigenti
Inoltre, il monopolio della produzione tessile, fino a metà Trecento tenuto dai fiamminghi, tese a lasciare spazio a Inghilterra, Olanda, Italia. Si facevano intanto largo anche attività «industriali» dislocate ora non più in città, bensì in campagna, dove la manodopera era più docile e a miglior mercato. In relazione alla ridefinizione agricola, con la riduzione degli spazi destinati ai cereali a vantaggio di piante «industriali», anche la manifattura tessile gettava ormai sui mercati non soltanto panni di lana, ma anche tele di lino e di canapa, sollecitate anche da una nuova moda che imponeva camicie e sottovesti.
Crebbe altresì di parecchio la domanda della seta, mentre si sviluppò in modo decisivo la manifattura del vetro. Insomma, si ha la sensazione che dopo la metà del Trecento la popolazione europea, per diminuita e impoverita che fosse, consumasse globalmente di più: il volume delle merci viaggianti aumentò; il che impose l’uso di nuovi tipi di nave, adatte a stazze più forti e tali da reggere alla navigazione oceanica in quanto, nel frattempo, i porti del Baltico e del Mare del Nord avevano aumentato la loro importanza.
Nacque così la nave da carico di tipo oceanico per eccellenza, l’alta e panciuta «cocca», in grado di trasportare grosse quantità di merci. A fronte di questi progressi nel campo del commercio e della manifattura, si inauguravano o si perfezionavano gli strumenti della contabilità e del credito: la «partita doppia», la «lettera di cambio» e così via. Il surplus di queste attività veniva in parte anche reinvestito nella proprietà fondiaria: in questo modo, si andò facendo strada, specie in Italia, un ceto imprenditoriale e dirigente nuovo, che era contraddistinto da connotati ormai «capitalistici», ma che al tempo stesso conduceva una vita aristocratica, in parte addirittura imparentandosi con famiglie di antica nobiltà.
Ripercorre quest’epoca un libro di Élisabeth Crouzet-Pavan, Rinascimenti italiani (1380-1500) (Viella, 2012, pp. 464, euro 38), specialista di storia di Venezia e dell’Italia in genere. E proprio al ruolo specifico dell’Italia sono dedicate le sue pagine; d’altra parte, Italia e Rinascimento sono impensabili l’una senza l’altra. Le città italiane erano motori di questo rinnovamento, tanto sotto il profilo economico quanto e soprattutto per quello culturale. Si è infatti abituati a definire «umanistica» la cultura italiana del Quattrocento. Termini come umanesimo e umanista sono naturalmente moderni: essi hanno tuttavia la loro radice primaria nel culto delle humanae litterae, cioè della cultura propriamente filosofica e letteraria maturata soprattutto nella Roma della cosiddetta «età aurea», vale a dire tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Insieme con la restaurazione di una lingua latina letteraria più bella e corretta, si guardava evidentemente ai valori morali e politici che gli autori della latinità «aurea» avevano proposto. Conseguentemente, ci si ispirava a un ideale umano di moderazione e di serenità e a un ideale politico di aristocratica libertà che era del resto molto adatto a essere apprezzato dalle élites delle città italiane tre-cinquecentesche, le quali – non diversamente, almeno in apparenza, alla Roma del I secolo a.C. – erano incerte tra forme di governo repubblicano e soluzioni signorili-principesche. Anche se furono evidentemente queste ultime a trionfare.
Intellettuali artigiani
Ma il lavoro degli umanisti non era disinteressato. Al contrario, proprio in quanto artisti e studiosi talvolta di umile origine, essi necessitavano di mezzi e di serenità sia professionali sia interiori, e si volgevano dunque alla ricerca di mecenati e di protettori; che trovavano nei grandi principi del tempo. Una protezione, quella di tali personaggi, sovente generosa, ma non gratuita. Dal poeta e dall’architetto che proteggeva e finanziava, il principe si aspettava celebrità e gloria: la maggior parte delle opere d’arte del Quattrocento, le migliori incluse, sono difatti opere celebrative fatte su commissione.
Il pensiero umanistico è ricco pertanto di realizzazioni pratiche: raramente lo studioso era un puro intellettuale da tavolino, più sovente era anche artigiano, e nel suo lavoro arte e tecnologia s’incontravano. Questo legame fra cultura umanistica e esercizio del potere spiega come, nel corso del Quattrocento, si sia affermata una serie di invenzioni e di scoperte che hanno cambiato la faccia di quello che fino ad allora era stato il mondo conosciuto. La polvere da sparo era conosciuta da molti secoli in Cina, dove però non serviva a scopi militari; in Europa era usata fino dal Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionare l’arma da fuoco fino a farne uno strumento d’assedio tanto efficace da obbligare l’architettura militare a inventare tutta una serie di nuovi accorgimenti protettivi. Anche la stampa era usata già da prima del Quattrocento per la riproduzione rudimentale di brevi scritti o disegni che venivano incisi su matrici di legno e poi impressi su fogli: fu tuttavia a partire dal Quattrocento che essa divenne un nuovo formidabile strumento di diffusione della cultura e della propaganda. Allo stesso modo la cosmografia – rinnovata dagli apporti antichi riscoperti dagli umanisti -, s’impose nel secolo XV non come scienza speculativa, bensì come strumento per l’ampliamento della terra e per l’arricchimento dei sovrani che ebbero l’audacia e la fortuna di promuovere i viaggi oceanici e le scoperte.
Un mondo in movimento
Era un salto notevole rispetto ai secoli precedenti, quando verso le attività lucrative la società esprimeva un ritegno ai limiti della diffidenza. È una storia che ricostruisce Jacques Le Goff ne Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo (Laterza, 2012, pp. 220, euro 11): nell’XI secolo il vescovo Adalberone di Laon descriveva le tre funzioni che rappresentano sulla terra l’ordine voluto da Dio e, allo stesso tempo, gli elementi che garantivano l’armonia nelle società. Oratores, bellatores, laboratores: ai primi spettava pregare affinché la stabilità del mondo cristiano fosse mantenuta; ai secondi combattere, perché esso potesse godere della sicurezza; ai terzi mantenere i due precedenti «ordini» con la propria opera. Il termine labor indicava fondamentalmente la fatica dei campi, quindi il lavoro agricolo. Tale ripartizione dei doveri e degli incarichi corrispondeva a una precisa divisione del lavoro e della ricchezza.
In una società in cui il denaro non circolava, era naturale che la Chiesa considerasse sospetto e quindi condannabile in quanto frutto d’usura qualunque tipo di guadagno non direttamente acquistato con il sudore della fronte e quindi guardasse con riprovazione al prestito (bandito come «usura») e ai commerci stessi. Nel frattempo, nuovi ceti si erano andati costituendo: e già alla fine del secolo i rappresentanti maggiori di essi, tenuti fuori dai comuni in quanto non appartenenti alle aristocrazie cittadine consolari, chiedevano di entrare a far parte delle compagini di governo. Chi era questa, che Dante avrebbe chiamato con disprezzo «gente nova»? Spesso si trattava in effetti di ceti medi rurali inurbati, ben provvisti di mezzi e favoriti dal flusso demografico ascendente, che faceva crescere la richiesta di derrate alimentari sul mercato e favoriva quindi chi possedeva terra coltivabile. Nelle città di mare, armatori e mercanti si erano arricchiti soprattutto grazie alle crociate e ai proventi del commercio delle spezie e degli articoli di lusso.
Primati tecnologici
In tutti i centri, il sempre più vorticoso bisogno di moneta liquida favoriva l’attività dei prestatori di denaro, che ben presto si trasformarono in speculatori e imprenditori («banchieri»); e infine la richiesta di beni di produzione sui mercati europei incoraggiava l’attività manifatturiera. Era questa la struttura di una società evidentemente abbastanza salda da poter reggere a un cinquantennio di grave crisi, per poi involarsi verso i fasti del Rinascimento, verso l’accumulo e l’investimento delle risorse, verso la creazione di un primato tecnologico e di un’ideologia atta a sfruttarlo fino alle ultime conseguenze per il dominio del mondo.

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