L’Est dopo il 1989, delusioni e risvegli

Che fine hanno fatto le idealità  democratiche e la società  civile che pretese e ottenne il cambiamento? I paesi dell’Est Europa, quelli che prima dell’89 venivano definiti del «socialismo reale» – parliamo in particolare di Ungheria, Repubblica ceca (già , in parte, ex Cecoslovacchia) e Romania – sono tornati prepotentemente in scena nell’attuale crisi del modello di Unione europea fin qui realizzato dalle leadership dei paesi occidentali.

Che fine hanno fatto le idealità  democratiche e la società  civile che pretese e ottenne il cambiamento? I paesi dell’Est Europa, quelli che prima dell’89 venivano definiti del «socialismo reale» – parliamo in particolare di Ungheria, Repubblica ceca (già , in parte, ex Cecoslovacchia) e Romania – sono tornati prepotentemente in scena nell’attuale crisi del modello di Unione europea fin qui realizzato dalle leadership dei paesi occidentali. In Ungheria, con l’arrivo al potere del leader di destra Viktor Orban che si sostiene con una coalizione di estrema destra cui partecipano movimenti ipernazionalisti, xenofobi e negazionisti, e nonostante una protesta diffusa e il ritorno in piazza dei socialdemocratici sconfitti alle ultime elezioni, il governo ha avviato, come risposta alla crisi sociale dell’Unione europea, la costruzione di un regime autoritario populista che riduce il peso elettorale dell’opposizione, mette il bavaglio alla stampa, cancella la sovranità della Banca centrale magiara (l’unica misura verso la quale Bruxelles abbia realmente protestato) e avvia una serie di «nazionalizzazioni» (mentre «dio» entra nella nuova costituzione dove si bandiscono l’aborto e i legami fuori dal matrimonio) di scuola e sanità salvaguardando l’impianto ideologico cattolico e individualistico dei servizi. Quanto alla Repubblica ceca, sotto la presidenza dell’euroscettico Vaclav Klaus e del premier di centrodestra Petr Necas, si è sfilata con la Gran Bretagna (ambedue forti di non avere l’euro come moneta) dall’approvazione del nuovo Trattato europeo che, in ossequio ai «mercati», blinda i bilanci degli stati e prevede ulteriori sanzioni. Infine la Romania ha visto una forte quanto inaspettata protesta popolare contro le privatizzazioni dei servizi sociali che ha portato alla caduta del governo Boc e al nuovo esecutivo guidato dall’ex uomo forte dell’intelligence.
È una sequenza di avvenimenti che illumina la nuova crisi europea in alcuni paesi – ma il discorso varrebbe per la stessa Germania con l’annessione a a tappe forzate del «suo» est, per la Polonia, la Slovacchia e perfino la Bulgaria, che furono il fulcro delle svolte democratiche del 1989 e ora sono a tutti gli effetti membri dell’Unione europea. E sorgono spontanee alcune domande: cosa è accaduto nell’Europa orientale in questi ultimi anni? Quei movimenti dell’89, quelle idealità democratiche e quella società civile in formazione che pretese e ottenne il cambiamento, che fine hanno fatto? È possibile che quella positività torni come specchio dei fallimenti del presente neoliberista, tanto da poter essere riutilizzata nel vuoto di prospettiva di un’Unione europea che sembra aver ereditato la sua legittimità solo dal crollo del «socialismo reale e che si è ridotta alla sua misura monetaria e alla doppia, feroce velocità dei forti contro i deboli? Sono le domande poste in un libro importante uscito di recente, L’Europa del disincanto. Dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo a cura di Francesco Leoncini (Rubbettino, pp. 207, euro 15).
Si tratta di interrogativi più che legittimi. Perché, spiega Leoncini nel saggio introduttivo significativamente intitolato L’Europa neoliberista, ovvero la seconda sconfitta della Primavera di Praga, a est è accaduto l’esatto contrario dell’auspicio di John K. Galbraith che nel suo I teologi del mercato scritto a ridosso del crollo del Muro di Berlino, insisteva sulla necessità di non lasciarsi guidare dalla cieca fiducia nei «mercati» e si augurava «doversi escludere per questi paesi liberati dal comunismo, l’introduzione di un capitalismo puro e duro, esperienza che nemmeno l’Occidente aveva conosciuto, dove anzi il capitalismo era riuscito a sopravvivere proprio grazie al welfare state»; e ammoniva: «Sarebbe certamente tragico se la conquista della libertà politica coincidesse con inaccettabili privazioni economiche».
È invece avvenuto – scrive Leoncini – «proprio quello che era stato sconsigliato, con le conseguenze che erano state paventate, vale a dire si è realizzato il passaggio a un crudo liberismo che ha causato la pauperizzazione di masse crescenti di popolazione e la concentrazione della ricchezza in ristretti settori di attività» e ruoli sociali. E aggiungiamo, come dimostrato dal saggio di Justyna Schulz, «Il capitalismo periferico, il caso Polonia» (Osteuropa, n.60, 2010) queste società sono diventate al più presto nient’altro che sub-sistemi, «subfornitori» delle economie occidentali, in particolare della Germania riunificata, economicamente dipendenti in quanto a mercati di esportazione e riserve di manodopera a basso costo.
Così si è innescato un circolo «virtuoso» che vede questi macrofenomeni finora scaricati strumentalmente a est – assolutismo del mercato, pauperizzazione, nuove oligarchie – manifestarsi anche in Occidente e nel resto del mondo, perché a prevalere ovunque è la stessa logica. Mentre a Est la corruzione dilagante – «necessaria» perfino negli studi delle Nazioni Unite per un’«accumulazione originaria» altrimenti impossibile – è diventata per milioni di persone l’identificazione stessa con la sedicente democrazia che si è instaurata dopo la caduta del sistema del «socialismo reale».
Senza dimenticare che, invece della democrazia a est, si è allargata quella Nato che avrebbe dovuto chiudere i battenti con la fine della Guerra fredda. E che invece ha recuperato ruolo e credibilità, per le ambiguità dell’89 (come la svolta che nei Balcani non fu democratica ma ultranazionalista ma non per questo meno sostenuta dall’Occidente) e per il ritorno della guerra nel sud-est dell’Europa. Ora forze militari Nato combattono in Afghanistan e preparano altre guerre, com’è accaduto in Georgia nel 2008 per la crisi abkhaza. Fatto più rilevante, l’entrata nella Nato dei paesi dell’est ha comportato che il loro status di effettivi paesi democratici sia stato garantito dall’adeguamento dei loro bilanci militari – richiesto a tutta l’Europa dagli Stati uniti, i capofila atlantici dopo le «impreparazioni» riscontrate per la guerra «umanitaria» contro la ex Jugoslavia – piuttosto che dal rispetto delle regole e dei vincoli della democrazia, dei diritti umani, delle minoranze e della libertà di stampa. Con una crescita oggettiva di ruolo militare che ha portato i paesi dell’Est Europa nel 2004 «a far da sé», rompendo proprio con la politica estera dell’Unione europea: tutti i paesi dell’est, dalla Repubblica ceca all’Ucraina hanno inviato infatti loro truppe a fianco di Bush rafforzando l’improbabile coalizione dei volenterosi per la guerra all’Iraq delle «armi di distruzione di massa». Proprio mentre la leadership politica dell’Ue, della Francia in particolare (ma non della prona Italia berlusconiana), osteggiava diplomaticamente quel conflitto.
Così nella crescita esponenziale di questa «democrazia» sono emersi, all’ombra dei «mercati», l’autoritarismo e la corruzione. Ma, ricordava già alla fine del 2009 Slavoj Zizek su Le Monde: «Dietro il Muro i popoli non sognavano il capitalismo».
Portando alla fine a Est al dilagare del fenomeno diffuso dell’antipolitica. E siamo sì all’Europa unita… ma dall’antipolitica – titolo del saggio di Fabio Bordignon (Liguori 2009) che, anche alla luce dei dati sulla scarsa partecipazione alle elezioni e dei molti sondaggi effettuati nell’ Est-Europa, constata che «il giudizio dei cittadini verso i leader politici è negativo, l’atteggiamento nei confronti dei partiti segnato da grande distacco. Più di otto persone su dieci ritengono che la maggior parte dei politici sia interessata solo ai soldi e al potere, e che solo una ristretta minoranza sia capace di governare nell’interesse del paese». Senza dimenticare gli scioperi generali del maggio 2011 a Praga e del dicembre 2011 a Sofia, contro i tagli al welfare e per una «politica pulita».
Ecco dunque l’interrogativo di fondo del saggio L’Europa del disincanto, che si avvale di straordinari contributi su alcuni paesi «inattuali» come quello di Andrea Griffante sulla Lituania e di Stefano Lusa sulla Slovenia, nonché di interventi preziosi come quelli di Gabriella Fusi, Dal «socialismo di stato» alla trasformazione neocapitalista: il caso ceco, di Giuseppe Gois Un crudele rimpianto. Riflessioni dai territori della Ostalgia, di Giovanni Bernardini Un’Europa a misura d’uomo: Primavera di Praga e Ostpolitik e di Alberto Tronchin L’89 cecoslovacco, tra storia e memoria: se sia possibile cioè, nel vuoto attuale dei valori europei nel precipizio della crisi del neoliberismo e dentro l’affermazione dell’antipolitica, riproporre i contenuti politici e sociali delle svolte dell’89. Che, soprattutto riguardo a Praga e a Varsavia, elaborarono le sconfitte della Primavera ’68 e delle rivolte operaie di Danzica e Stettino represse nel 1972 con la nascita della società politica e civile di Charta 77 e la crescita del movimento operaio di Solidarnosc a guida cattolica. È insomma possibile ripartire da quel «potere dei senza potere» di cui parlava Vaclav Havel quando era dissidente e che disattese poi nella sua gestione reale del potere?
Leoncini non ha dubbi. Perché, scrive, il fallimento del sistema neoliberista ha svelato le contraddizioni che si sono accumulate nelle società europee «aggredite da corruzione e gestione arbitraria e verticistica dell’economia mentre la dittatura comunista cinese ha finito per rappresentare il modello di organizzazione del lavoro». È questo che ha provocato spinte populiste di estrema destra «ma anche un forte risveglio di quella Zivilcourage» che portò alla mobilitazione contro i governi dei paesi a «socialismo reale». Specie nella sua componente giovanile, questa «Europa reale» non crede più nelle classi dirigenti che hanno ridotto la democrazia a una formalità e dal disincanto sta rapidamente passando alla rabbia e all’indignazione.

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