Il manifesto tra riformismo e utopia

È possibile immaginare, e discutere, una politica economica altra da quella, monocorde, del governo in carica e da quella, incompetente, dei governi di Berlusconi? “Il manifesto” dovrebbe farlo e forse venderebbe qualche copia in più Si può essere, a un tempo, oggi, riformisti-solutori di problemi («doing good», diceva Keynes) e utopisti-rivoluzionari? E utilmente dichiararsi tali?

È possibile immaginare, e discutere, una politica economica altra da quella, monocorde, del governo in carica e da quella, incompetente, dei governi di Berlusconi? “Il manifesto” dovrebbe farlo e forse venderebbe qualche copia in più Si può essere, a un tempo, oggi, riformisti-solutori di problemi («doing good», diceva Keynes) e utopisti-rivoluzionari? E utilmente dichiararsi tali?
Speravo che non mi accadesse di essere chiamato a rispondere, pubblicamente e per iscritto, a una siffatta, orticante domanda. Invece è accaduto, per colpa di Valentino Parlato, a cui l’amicizia mi impedisce di dire di no. Valentino me lo ha chiesto sulla scia dell’impegnato, stimolante articolo di Rossana Rossanda, «Un esame di noi stessi». Se non possiamo più dirci comunisti, allora che cosa siamo (il manifesto, 18 febbraio 2012). La mia risposta è sì. Ne discende che il manifesto può – forse deve – restare «quotidiano comunista» e che Rossana Rossanda può – forse deve – «dirsi ancora comunista» anche «nei tempi brevi», con beneficio di tutti. Provo ad argomentare, nel modo più semplice e diretto di cui sono capace (rinviando per una più estesa trattazione a L’economia di mercato capitalistica: un modo di produzione da salvare, in Rivista di Storia Economica, n. 3, 2011).
Il capitalismo – l’economia di mercato capitalistica – è un modo di produzione (nel senso di Marx) o un sistema economico (industrialismo, nel senso di Hicks) unico nella storia e, ovviamente, storico come tutte le costruzioni dell’uomo riunito in società. Figlio della rivoluzione industriale inglese del Settecento – sino ad allora era stato mercato, non capitalismo industriale – questo sistema si è affermato progressivamente. Ha spazzato via un «socialismo reale» che poco aveva a che fare con la migliore teoria – da Barone a Lange, a Kalecki, a Kornai – di una economia e di una società comuniste.
Ben lo compresero i fondatori de il manifesto quaranta anni or sono, il loro merito storico. Unitamente alla debolezza dell’avversario – la insipienza di un socialismo reale il quale non comprese che del mercato qualunque modo di produzione aveva fatto e poteva far uso – l’attuale modo di produzione si è imposto per una ragione economica molto chiara. È la ragione indicata dal Marx economista. Come nessun altro sistema storicamente sperimentato, l’economia di mercato capitalistica è stata capace di sviluppare le forze produttive. Ha smentito Malthus. Secondo la contabilità attualmente in uso, nel volgere di non più di due secoli ha moltiplicato per oltre 60 la produzione, per oltre 120 le attività industriali, di oltre 10 volte il reddito medio pro-capite di una umanità che nel frattempo esplodeva, da uno a sette miliardi di persone. Nei millenni sino ad allora quest’ultimo aveva non di molto oscillato sui 500-600 dollari l’anno, ai valori di oggi. Oggi, avvicina i 7000 dollari.
Un tale attributo positivo del capitalismo industriale ha fatto premio sui tre attributi pesantemente negativi: l’essere il sistema instabile, iniquo, inquinante (tre strutturali «i»). Il modo di produzione sorto in Inghilterra due o tre secoli fa è divenuto totalizzante, eslusivo, l’unico al mondo. Le soluzioni alternative del problema economico – del «che cosa, come e per chi produrre», lo slogan di Samuelson – si sono sempre più configurate come astratte utopie, miti, sogni, a cominciare da quella comunista, ma non la sola.
Negli ultimi decenni tuttavia il modo di produzione nel quale il mondo ha scelto di vivere ha visto fortemente accentuarsi gli attributi negativi – le tre «i» – e, non meno importante, fortemente attenuarsi l’attributo positivo. L’instabilità si è estesa, spesso allo stesso tempo, ai prezzi dei prodotti (l’inflazione), alle attività produttive (recessione e disoccupazione), ai valori dei cespiti patrimoniali (quotazioni degli immobili, dei titoli, delle valute, delle banche). La distribuzione dei frutti dello sviluppo economico è divenuta più diseguale, fra i cittadini del mondo (un miliardo i sottonutriti) e non di rado fra i cittadini di uno stesso paese, l’Italia ad esempio. Le ferite al territorio, all’ambiente, all’ecosistema – la più grave fra le «esternalità negative» – minacciano la vita di moltitudini di uomini, se non la sopravvivenza sul pianeta.
Il progresso economico, seppure generalizzato, ha rallentato rispetto agli anni 1950-70; è stato molto diverso fra aree, paesi e regioni; tende a spegnersi in economie un tempo dinamiche, come quelle del Giappone e dell’Italia, a rischio di declino.
In estrema sintesi, la performance del sistema peggiora. Peggiora al punto da far temere a un numero crescente di scienziati sociali che le sue difficoltà infliggano insostenibili sofferenze al genere umano. Se una crescita bassa, incerta e disuguale dovesse unirsi alle crisi economiche e finanziarie, alle ingiustizie distributive, ai disastri ambientali il sistema potrebbe generare tremende tensioni sociali, politiche, militari. Potrebbe al limite implodere nel caos. Ciò che è più grave, tensioni e caotica implosione avverrebbero nel vuoto di soluzioni alternative non più soltanto utopistiche, ma praticabili nel concreto.
Richiamandomi alla lezione che Federico Caffè offrì in anni non lontani a ogni comunista autore o lettore de il manifesto, scrivevo: «Nell’attesa della ‘palingenesi’, e mentre si adopera per realizzare i presupposti del cambiamento radicale del sistema, egli – dedito a servire il popolo, egli stesso figlio del popolo – avrà cura di evitare al popolo sofferenze inutili, che l’azione riformatrice può prevenire o lenire. Caffè dà naturalmente per scontato che l’utopista/rivoluzionario senta come un atto contro natura il provocare artificialmente, per accorciare il tempo logico della palingenesi, sofferenze e tensioni nel popolo di oggi, in specie nei più deboli e bisognosi. Saprà così sottrarsi al mito un po’ ridicolo della lotta di classe tra genitori e figli, fra generazione presente e generazioni future, tra eredità e pensioni, mito proposto quasi in alternativa al contrasto antico tra profitto e salario, redditi alti e redditi bassi, patrimoni e debiti» (prefazione a Federico Caffè, scritti quotidiani, manifestolibri, Roma 2007, p. 10, scusandomi per l’autocitazione).
Penso quindi che un giornale intelligente e prezioso come il manifesto dovrebbe avere entrambi i timbri, oggi per nulla in contrasto fra loro: quello della proposta di politica economica e sociale di fronte ai problemi che urgono e quello della concreta prospettazione di un modo di produzione diverso dall’attuale. I due profili dovrebbero inoltre, idealmente, essere fra loro connessi in modo stretto.
Io non sono fra i lettori assidui del giornale, ma non mi pare che ciò sia avvenuto e stia avvenendo con lucida consapevolezza e con continuità, neppure con riferimento al solo caso italiano. L’economia italiana, almeno dal 1992, è avviata a drammatiche difficoltà, in parte soltanto già emerse. Vuoto di produttività nelle imprese, crescita di trend spenta, sottoutilizzo del potenziale produttivo e delle capacità individuali, crisi di debito pubblico sottopongono la società italiana a uno stress non più sperimentato dalla guerra e dal dopoguerra, tale da mettere a repentaglio le libertà costituzionali, la democrazia.
È possibile immaginare, e discutere, una politica economica altra da quella, monocorde, del governo in carica e a fortiori da quella, incompetente, dei governi dell’onorevole Berlusconi; il manifesto dovrebbe farlo. Ad esempio, non vale definire «tecnici», e mancare di farli seguire da un qualche dibattito, da critiche e proposte migliori, contributi di politica economica che pure il manifesto ha pubblicato (come quello di chi scrive – Tre urgenze per l’economia italiana, 10 agosto 2010, scusandomi per l’ulteriore autocitazione ! – e quello di Giorgio Lunghini Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi del 16/2).
Se unisse riformismo propositivo e concreta utopia il manifesto forse venderebbe qualche copia in più. Certo interesserebbe la più vasta platea di chi sollecita civili soluzioni per l’oggi e di chi ricerca un mondo migliore, o quantomeno un mondo diverso, per il futuro.

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