«Io mi chiamavo Marina Cvetaeva»

 Nei suoi versi c’era «un abisso di purezza e di forza» Toglievano il respiro a Pasternak, ma non la salvarono

 Nei suoi versi c’era «un abisso di purezza e di forza» Toglievano il respiro a Pasternak, ma non la salvarono

«Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». Così Anna Achmatova descrive l’impeto creativo di Marina Cvetaeva, che non si esauriva nell’attacco ma si manteneva intatto nel corso del componimento quasi ignorasse persino l’eventualità di modulare la furia del suo verso. La sua vita coincise con il timbro tragico della sua voce. Nata nel 1892 a Mosca, inizia a scrivere versi a sei anni, per quanto la madre musicista la spinga ossessivamente verso il pianoforte e le neghi persino la carta destinata alla scrittura. A cavallo del secolo, nascono i fiori dell’età d’argento della letteratura russa, quando il Paese sembra beneficiare di uno scherzo benevolo della natura, decisa a riversarvi innumerevoli talenti letterari, in particolare poetici: Alexander Blok, Andrej Belyj, Vladimir Majakovskij, Boris Pasternak, Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Sergej Esenin…
L’oro era riservato al secolo di Alexander Pushkin, il sole delle lettere russe, tramontato in duello troppo presto, ma sempre allo zenit nel cuore dei compatrioti. Gli eredi di Pushkin si apprestavano ad affrontare un tempo dominato dagli slogan di un potere livellatore dove l’individuo era solo parte della massa e il poeta un pericoloso parassita.
Prima della rivoluzione, Marina, caparbia e ribelle sin dall’infanzia, elude i diktat materni e a 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la prima raccolta di componimenti, dopo aver trascorso lunghi periodi a Parigi e aver frequentato la Sorbona. È l’esordio di una poetessa prolifica, nata bella, ricca, intelligente e audace che avrà al suo attivo centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad un vastissimo scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande amore impossibile, rimasto platonico, nonostante lo slancio passionale: i due non si scambiarono nemmeno un vero bacio. La natura di questa donna, condannata alla poesia quanto all’infelicità, irruente e ribelle fu una delle cause del suo isolamento anche durante l’esilio a Parigi. Proprio Pasternak, comunque, le regala nella sua Autobiografia il riconoscimento più alto: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava… In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Nessun critico, neppure il più spregiudicato e a lei più ostile, riesce mai a ricondurre la sua arte a un’etichetta, per quanto in un tempo così intellettualmente vivace le definizioni si sprecassero: simbolisti, acmeisti, cubo futuristi, poeti contadini… Lei è una poetessa concreta. Il ricorso alle allusioni e ai sottintesi è ridotto. Affronta ogni tema esistenziale, rivisita la storia. Si appropria del reale quotidiano e lo trasforma in poesia sfruttando la dialettica tra le radici dei vocaboli, creando un contrappunto semantico incalzante che diventa la sua miniera inesauribile.
«Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak» (Iosif Brodskij, Il canto del pendolo). Nello scrivere, crea una sorta di partitura con tratti che ne suggeriscono la lettura. Anticipa ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa il coetaneo Sergej Efron a cui fa una promessa che purtroppo manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche e sparisce. Marina perde tutto, subisce il saccheggio della propria casa, accetta ogni tipo di umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che muore a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. Avrebbe voluto chiamarlo Boris e invece per insistenza di Efron lo chiamano Georgij detto Mur. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L’accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel ’25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti sorretti unicamente dal lavoro di Marina, che sbriga lavori domestici presso varie famiglie fino a consumarsi le mani.
Il fatale Efron si unisce a insaputa di lei ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Risuona la sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino» e nel 1939, due anni dopo la partenza dei suoi cari, Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che siano arrestati e affidati alle mani roventi di Lavrentij Berija, salito al vertice della polizia segreta di Stalin nel 1938.
Da quel momento Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell’acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria dove vivono momenti di disperazione. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d’addio e d’amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e perché la sua reputazione lo penalizzava; per il marito che a insaputa di lei era già stato fucilato; per Alja che dopo sei anni di gulag trascurerà il suo spiccato talento di pittrice per dedicarsi alla memoria e agli scritti della mamma.
L’epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni. Immaginandosi sottoterra si rivolge a un passante: «… Leggi — di ranuncoli/ e papaveri colto un mazzetto —/ che io mi chiamavo Marina/ e quanti anni avevo… Solo non stare così tetro,/ la testa china sul petto./ Con leggerezza pensami,/ con leggerezza dimenticami».

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