Corpi disabili, resistenti al «normale»

CARTEGGI Da Donzelli «Il loro sguardo buca le nostre ombre» di Julia Kristeva e Jean Vanier
Schiettezza e dolcezza nella conversazione sull’handicap tra un credente e una non credente

CARTEGGI Da Donzelli «Il loro sguardo buca le nostre ombre» di Julia Kristeva e Jean Vanier
Schiettezza e dolcezza nella conversazione sull’handicap tra un credente e una non credente
Ci sono libri che è difficile descrivere, a meno di non correre il rischio di una sintesi sterile, inconsistente, un po’ come quando a scuola fanno «ridurre in prosa» l’Infinito di Leopardi. Uno di questi libri «irriducibili» è senza dubbio lo scambio di lettere tra Julia Kristeva e Jean Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso, traduzione di Alessia Piovanello, prefazione di Gianfranco Ravasi, Donzelli, pp. 220, euro 16.
È un libro anomalo, non è uno sfoggio di argomentazioni, né un dibattito. Piuttosto, siamo molto vicini a un concerto per archi e fiati. Jean Vanier è il violinista, delicatissimo e acuto, virtuoso delle tonalità più ardite, sa attraversare lande gelide e inospitali, regalando arie di straziante intensità; la Kristeva dà fiato a trombe che gridano indignazione e rabbia, ribellione e gioia, calore e stupefazione. Vanier è un lupo di mare canadese, classe 1928, convertitosi al rigore della metafisica aristotelica, prima, e della teologia cattolica poi. Fonda nel 1964 l’Arca, istituzione nomade di assistenza e solidarietà alle persone disabili di tutto il mondo. Kristeva, di origini bulgare, è una delle punte di diamante dello strutturalismo francese. Semiologa, psicoanalista, sodale di Jacques Derrida e interprete unica del «genio femminile» (con questo titolo pubblica stupende biografie di Hanna Arendt, Colette e Melanie Klein), la Kristeva è al tempo stesso un’archeologa della modernità e un’esigente sentinella del futuro. Soprattutto in quanto madre. Soprattutto in quanto madre di un figlio disabile. Ed è qui che Kristeva incontra Vanier, su questo terreno delicatissimo, su questa prova impossibile.
Un figlio disabile. Una disgrazia? Una provocazione? Uno scherzo? Piuttosto un atto di resistenza alla «tirannia della normalità», suggerisce Vanier. L’assolutismo del reale, avrebbe detto Hans Blumenberg, è lo slancio dell’immaginario, il pungolo della fantasia. La disabilità che alberga nell’intimità, la fragilità che costituisce la plasticità dei corpi – corpi che si pensano e si disegnano sempre invulnerabili, magari maschi, biondi, giovani, prestanti, normodotati, calciatori, prodighi, infallibili, eterosessuali, magnanimi elargitori di saltuarie elemosine natalizie, eccetera – questa disabilità è ciò che rende compiutamente umani. C’è a tal proposito una poesia del vecchio Wallace Stevens che descrive esattamente questa limpida verità dell’essere «finalmente umani», una volta che «ogni persona ci tocca così come è nella spenta grandezza della dissoluzione». Cioè a dire: quando si appalesa la vulnerabilità dei nostri corpi, la finitezza delle nostre ore, abbiamo finalmente l’occasione per riconoscerci per quel che siamo, non per i sogni deliranti di immunità che guidano le nostre ansie di sicurezza. La disabilità è allora integrazione della morte, che non vuol dire quieta e rassegnata accettazione. Se Vanier si abbandona volentieri alla tenerezza come virtù umana principe per descrivere il bisogno pre-genitale di intimità carnale con il fragile, Kristeva insiste piuttosto sulla dimensione pre-religiosa della cura dell’altro.
Il loro carteggio non è uno scambio di pacche sule spalle, non è una compiaciuta e reciproca conferma di narcisismo. Forse Kristeva è più esposta al rischio dell’adulazione, lei accademica affermata, abituata ai microfoni e al supposto sapere del discorso che la autorizza… ma il confronto con Vanier la obbliga ben presto a una schiettezza quasi spietata, e insieme a una dolcezza inusitata, il registro stilistico del suo celebre libro su Teresa d’Avila, Teresa mon amour, non a caso al cuore di questo carteggio.
Due temi, tra i tanti che si potrebbero individuare, emergono dirompenti e provocatori da queste pagine struggenti: la differenza e la profezia. Iniziamo da quest’ultimo. Vanier azzarda a dire che il disabile è figura profetica. Kristeva non ci sta, sottolinea l’iperbole nell’affermazione dell’interlocutore. La domanda rimane in sospeso, ma rimane. Perché il disabile dovrebbe essere profeta? Forse perché, come dice Martin Buber, profeta è chi consegna un’alternativa alla comunità: o la vita, seguendo la conversione, oppure la distruzione. Il disabile incarna questa alternativa, ne è nel contempo messaggio e medium, come nella più squisita lezione massmediologica. Profezia di cambiamento, dunque, dove non vale la dogmatica o il mieloso buonismo del «poverino!», ma vale il sofferto approccio del parente, del vicino di casa, dello sconosciuto samaritano che decide di accogliere un messaggio di finitezza, di mutacica, disfasica, caparbia vitalità. Non è la dignità a decidere della vita: è la vita del disabile che chiede conto della dignità. Ed ecco la differenza. Ed è subito provocazione politica e teologica insieme. Teologica perché il Dio handicappato di cui parla Vanier è il Gesù che sul monte beatifica i «poveri in spirito» (cioè gli ultimi della classe, i «down», come dicono i ragazzi oggi con perfida sineddoche), e invita al banchetto zoppi e ciechi (Luca 14,13); ma si tratta anche di una provocazione politica, che ci investe come un’onda anomala in tempo di magra.
La differenza della disabilità ha qualcosa di profondamente perturbante, più che quella etnica o, come si diceva un tempo, «razziale». Nel libro vi sono parecchi riferimenti al razzismo e ad altre tematiche affini (la xenofobia, il maschilismo, la questione israeliana, l’apartheid); ma la differenza del disabile è ancora altro, dice Kristeva: «La differenza dei disabili, contrariamente a tutte le altre differenze, rinvia non a una lotta per il potere, ma al senso che diamo alla specie umana». Il punto è proprio questo: di fronte al «grado zero» della fragilità, all’umanità nel suo stato puramente affidabile, non prestare fede è forse l’atto più colpevolmente empio che la civiltà dei consumi può perpetrare. Prendersi cura dello storpio, del cieco, del povero in spirito, invece, è forse l’unico vero atto di fede possibile per ripensare il senso dell’umanità, oggi e domani, nella dimensione penultima delle ore mortali.

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