“L’Orso d’oro ai carcerati li fa uscire dall’isolamento”

L’uomo che lavora con loro: “Il film corona unàesperienza unica”

 

L’uomo che lavora con loro: “Il film corona unàesperienza unica”

 


«CESARE DEVE MORIRE» «I Taviani folgorati dall’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia»
Dietro il film che ha riportato l’Italia sul palcoscenico del cinema internazionale, c’è «la testardaggine di due grandi autori», ma anche l’impegno appassionato di un regista che, nel carcere romano di Rebibbia, lavora da 10 anni, mettendo in scena classici di Dante, Pirandello, Skakespeare, perché, dice, «le parole creano la realtà, e la realtà diventa ricca se esse lo sono». Per Fabio Cavalli, genovese, 53 anni, l’Orso d’oro a Cesare deve morire è il coronamento di un’«esperienza straordinaria, di un progetto in cui non credeva nessuno. Il film non si riusciva a fare, sono anche andato in giro a cercare sponsor ma, appena sentivano la parola detenuti, fuggivano tutti». Poi è successo che i fratelli Taviani siano andati a vedere l’«Inferno» di Dante: «Li ha folgorati l’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia».
Che cosa significa recitare, per i detenuti?
«Significa aprirsi finalmente al mondo, avvicinarsi a quella cultura che, sui banchi di scuola, avevano rifiutato, vivere una seconda possibilità, accostarsi al sapere attraverso il piacere dell’immaginazione, ma anche identificarsi nei personaggi che interpretano e capire meglio quello che sono. Pronunciare le battute di Macbeth, per una persona che ha commesso certi reati, è molto diverso che per un normale attore».
Lei come è entrato in contatto con questa realtà?
«Faccio il regista, un amico mi disse che c’erano dei detenuti che stavano tentando di mettere in scena Napoli milionaria, ma non ci riuscivano. Andai a vedere, mi ritrovai davanti a 20 attori che, in uno spazio di 7 metri per 5, provavano e riprovavano. Era una specie di caos organizzato, alla napoletana, quella volta ho perso la mia verginità di borghesuccio, e ho capito subito che bisognava solo regolare i toni, un po’ come i pulsantini di una consolle».
Oggi il teatro è diventato, in carcere, una presenza fissa, eppure se ne parla poco.
«A Rebibbia i detenuti coinvolti sono un centinaio, si sono formate tre compagnie, che si esibiscono in un teatro di 400 posti, perfettamente attrezzato, con una sua stagione, come tutti gli altri. Negli ultimi 5 anni abbiamo avuto 22mila spettatori, e ora stiamo per entrare nel curcuito ufficiale dei teatri di Roma».
Da chi è composto il vostro pubblico?
«Lavoriamo con gli assessorati, per lo più vengono studenti, minorenni, che dopo aver visto uno spettacolo, tornano sempre».
In carcere maschi e femmine sono separati, come si fa con le opere in cui sono presenti i due sessi?
«Abbiamo fatto una versione del Candelaio di Giordano Bruno en travesti, ma ci sono anche tante attrici che collaborano abitualmente con noi».
Il film mostra come, in certi particolari momenti, dirigere una compagnia di detenuti non sia affatto semplice. Che tipo di problemi le è capitato di affrontare?
«Lavorare con loro significa fare i conti con gente che sta male e soffre, la mancanza di libertà è terribile, chi non la prova, non può capire. Mi è successo di assistere alla notifica di una condanna di ergastolo, oppure di vedere la scena di un recluso a cui viene data la notizia inattesa della liberazione… Ho imparato, per esempio, che non posso mai fissare le prove nei giorni dei colloqui. Se l’incontro con un parente va male, nessun detenuto ha più voglia di recitare».
Che cosa ha imparato?
«In carcere bisogna dire sempre la verità, spesso si ha a che fare con persone abituate a comandare, se non sanno bene chi hanno davanti, non si affidano, non delegano».
Che cosa rappresenta, per tutta questa realtà, l’Orso d’oro della Berlinale?
«È il segno di un vento di rinnovamento, che riguarda tutto il Paese. In Gomorra si raccontava quello che accade prima, fuori dal carcere. Adesso è arrivato il tempo di parlare del dopo».

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