L’ambasciatore dei due mondi

Manlio Brosio da Mosca a Washington, infine alla Nato

Dopo la fine della guerra, i primi governi democratici espulsero dal ministero degli Esteri i funzionari che avevano collaborato con la Repubblica sociale (molti torneranno a Palazzo Chigi qualche anno dopo), ma evitarono epurazioni rivoluzionarie e lasciarono pressoché intatto il corpo diplomatico.

Manlio Brosio da Mosca a Washington, infine alla Nato

Dopo la fine della guerra, i primi governi democratici espulsero dal ministero degli Esteri i funzionari che avevano collaborato con la Repubblica sociale (molti torneranno a Palazzo Chigi qualche anno dopo), ma evitarono epurazioni rivoluzionarie e lasciarono pressoché intatto il corpo diplomatico. Decisero tuttavia di riservare alcune fra le principali ambasciate e legazioni agli esponenti dell’antifascismo e li scelsero in modo che ciascuno di essi fosse, per quanto possibile, in sintonia con il Paese in cui avrebbe rappresentato l’Italia: un liberale a Londra, un azionista a Washington, un socialista a Parigi, un comunista a Varsavia, un repubblicano a Berna e un altro azionista in Cina. Quando, nel 1947, fu necessario inviare un ambasciatore a Mosca, la scelta cadde su un esponente piemontese del Partito liberale che era stato vicepresidente del Consiglio nel breve governo presieduto da Ferruccio Parri e ministro della Guerra nel primo governo di Alcide De Gasperi.
Manlio Brosio, nato nel 1897, non era in sintonia con l’Unione Sovietica, ma la sua posizione, in materia di politica estera, non era diversa da quella di Giovanni Giolitti alla vigilia della Grande guerra. Voleva evitare che l’Italia, nel confronto già teso e minaccioso fra gli Stati Uniti e l’Urss, prendesse partito. Non era neutralista, ma pensava che il suo Paese avrebbe meglio difeso i propri interessi e valorizzato il proprio ruolo evitando quello che Pietro Nenni, due anni dopo, definì il «cappio delle alleanze». Se davvero riteneva che la sua posizione sarebbe piaciuta a Mosca, Brosio commise certamente un errore. I sovietici, con un giustificato realismo, pensavano che l’Italia appartenesse al campo occidentale e che sulla sua neutralità non fosse opportuno fare affidamento.
Anche Brosio finì per convincersene. Vide da Mosca la nascita dell’Alleanza atlantica e fu trasferito nel 1952 a Londra, dove ebbe una parte importante nel negoziato che permise all’Italia di tornare a Trieste. Per lui, nel frattempo, le porte dei piani alti della politica italiana si erano chiuse. Decise di restare all’estero e negli anni seguenti fu ambasciatore in altre due capitali del mondo occidentale: Washington dal 1955 al 1961 (gli ultimi anni della presidenza Eisenhower e l’inizio della presidenza Kennedy), Parigi dal 1961 al 1964 (l’ultima fase della guerra d’Algeria e la nascita della forza nucleare francese). La sua nomina a segretario generale della Nato fu dovuta al suo prestigio, alle sue esperienze, alla conoscenza dei due mondi che si guardavano in cagnesco attraverso il sipario di ferro, al desiderio di compiacere l’Italia. A nessuno venne in mente di obiettare che Brosio, poco meno di vent’anni prima, aveva considerato l’Alleanza atlantica con sospetto. Chi lo ricordava dovette pensare che i convertiti sono spesso più rigorosi dei vecchi credenti. Nel caso di Brosio è certamente vero. Durante gli otto anni passati alla Nato, il segretario generale non smise mai di temere che la distensione, praticata dai due blocchi con molti alti e bassi dopo l’arrivo di Kruscëv al potere, distraesse gli Stati Uniti, impegnati allora in Vietnam, dal principale compito dell’Alleanza: difendere l’Europa dalla minaccia sovietica e permetterle di perseguire in sicurezza l’obiettivo della sua unità.
Brosio era un uomo apparentemente freddo e composto, ma ansioso, inquieto, spesso pessimista. A giudicare dal diario di quel periodo, apparso ora presso il Mulino a cura di Umberto Gentiloni Silveri, visse tutte le crisi in cui fu coinvolto con una partecipazione e un’angosciata introspezione che non sono generalmente le abituali caratteristiche di un diplomatico. Le crisi, in quegli anni, furono particolarmente numerose. Gli interminabili bisticci greco-turchi sull’isola di Cipro, il progetto fallito per la creazione di una forza nucleare multilaterale, le bordate di de Gaulle contro la Nato, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la Ostpolitik dei socialisti tedeschi, il colpo di Stato greco, il viaggio di Nixon in Cina, tutto approdava prima o dopo nella grande cucina diplomatica della Nato e diventava materia di intrugli e pasticci a cui ogni Paese cercava di aggiungere una dose più o meno grande delle proprie preferenze politiche. Per esperienza personale, so che il gioco dei comunicati, delle dichiarazioni e dei processi verbali faceva la gioia di molti dei diplomatici che si riunivano attorno al tavolo rotondo del Consiglio. In Manlio Brosio, invece, quelle crisi e quegli esercizi procuravano apprensioni, paure, delusioni e frustrazioni, che venivano depositate ogni giorno nell’intimità del suo diario. Il libro curato da Gentiloni Silveri, con la collaborazione di Maddalena Carli e Stefano Palermo, è quindi anzitutto un utilissimo strumento di lavoro, non soltanto in Italia, per chiunque si occupi della politica internazionale negli anni Sessanta e Settanta. Ma è anche una sorta di confessionale in cui Brosio analizza se stesso, si compiace per i suoi successi, lamenta le sue carenze, ammette le sue ambizioni, politiche, si punisce o si assolve. Vi sono anche pagine, tuttavia, in cui l’autore si permette qualche licenza e dice ironicamente o spietatamente ciò che pensa dei maggiori protagonisti di quegli anni. L’arcivescovo Makarios, leader del movimento per l’indipendenza di Cipro, è «un irresponsabile pericoloso». Gli inglesi «sono maestri nello scaricare agli altri i loro doveri». Maurice Couve de Murville, ministro degli Esteri del generale de Gaulle, ha un «tono perentorio e un po’ sprezzante che crede d’intimidire e dà fastidio». Il presidente americano Lyndon Johnson è «un becero texano». I laburisti britannici, tornati al potere nel 1964, sono «modesti, infervorati, pericolosi». Gli olandesi sono «eleganti reggicoda degli inglesi». Il generale de Gaulle è «troppo disumano, troppo francese».
Per qualche tempo, negli anni della sua presenza alla Nato, Brosio sperò di rientrare nella politica italiana, magari attraverso il portone del Quirinale. Ma al termine del mandato atlantico dovette accontentarsi di un seggio al Senato per il Partito liberale in una elezione (maggio 1972) da cui il Pli uscì piuttosto acciaccato. La legislatura durò quattro anni e fu turbata da attentati terroristici e agitazioni sociali. L’Italia non era quella che Brosio aveva rappresentato all’estero in anni migliori e l’esperienza parlamentare dovette renderlo ancora più pessimista di quanto fosse stato nel corso della sua vita. Ma continuò a lavorare come se il solo padrone a cui un uomo deve rispondere delle proprie azioni fosse la propria coscienza. Morì a Torino il 14 marzo 1980.

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