Elsa, un Sortilegio salvò il romanzo

La Morante, con l’opera d’esordio, smentì la fine della narrazione tradizionale

La Morante, con l’opera d’esordio, smentì la fine della narrazione tradizionale Cento anni fa, nel 1912, nasceva Elsa Morante. È probabile, e auspicabile, che nei prossimi mesi convegni, incontri, letture ricordino e rendano l’onore dovuto a una scrittrice che, insieme a Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è ai vertici della narrativa italiana del Novecento. Intanto — dopo oltre sessanta anni, poiché uscì nel 1948 e subito vinse il Premio Viareggio (erano altri tempi) — rileggiamo il romanzo del suo strepitoso esordio: Menzogna e sortilegio.

Menzogna e sortilegio segnò un esordio strepitoso non tanto per la giovane età dell’autrice (trentasei anni alla pubblicazione delle settecento pagine fittissime), dal momento che precedenti illustri della letteratura inglese, quali Jane Austen o Emily Brontë, svelano come non sia insolito che il genio della scrittura fiorisca così precocemente e in tale profondità nell’animo femminile, quanto per il felicissimo incontro fra una scrittrice dotata di tutti i talenti possibili e il romanzo tradizionale di stampo ottocentesco. Qualcuno, di lì a non molto, avrebbe decretato che il romanzo tradizionale, il romanzo-romanzo, era o sarebbe finito: una sciocchezza, perché il romanzo si trasforma, certamente, ma è destinato a non finire mai. In ogni caso: a far da sentinella, era apparso Menzogna e sortilegio, (poi sarebbero venuti L’isola di Arturo e La Storia) che del romanzo-romanzo aveva tutti i crismi e, giocando d’anticipo, smentiva — con la sua ricchezza tematica, la forza e l’imponenza dei suoi personaggi, l’intreccio, l’ambiente e il «passo»: la straordinaria capacità della Morante di tenere un passo lungo — quelle funeste previsioni.
Menzogna e sortilegio, come annuncia il suo titolo, è un romanzo della più spietata irrealtà, un romanzo «avvelenato» dalla finzione e dalla menzogna, che, al suo fondo, combatte una strenua lotta con il mondo reale. Non ha importanza chi, alla fine, ne esca vincitore: se gli spettri che popolano la mente della narratrice Elisa — figure celestiali e torve segregate in una dimora celeste che è però più simile a un carcere in cui si svolge una esistenza larvale — o la fredda, nuda verità che uccide ogni illusione, smaschera ogni bugia, annulla ogni fattura, disperde ogni sogno. La bellezza del romanzo sta proprio in quella disperata e titanica battaglia: tra gli abitanti delle regioni sovrumane, e gli umili abitanti delle regioni terrestri; fra l’esilio terrestre e il Paradiso.
Se vogliamo, la trama di Menzogna e sortilegio è abbastanza semplice. In un’epoca non ben definita (nella quale esistevano carrozze con i cavalli e treni), in una città del Sud d’Italia non ben definita (nella quale potremmo riconoscere Catania o Palermo — ma il casamento popolare e il «monte dei cocci» sono Roma, Testaccio, dove la Morante nacque) scoppia un amore furibondo fra una ragazza, Anna (figlia di un nobile decaduto, Teodoro Massia di Corullo e una povera maestrina, Cesira) e il suo nobilissimo e ricchissimo cugino, Edoardo Cerentano di Paruta. Anna, dal giorno in cui il padre glielo ha indicato fanciullo in una carrozza, ha sempre avuto nel cuore il Cugino biondo. Quando i due si rincontrano e si riconoscono in una giornata inusuale di neve, davanti a una cioccolateria dove i ragazzi nullafacenti si divertono a distrarre e a far scivolare le ragazze sul ghiaccio (lui è bello, ricco, lei ha una giacchetta nera, una gonna rossa, scarpe sdrucite, capelli raccolti nelle trecce e avanza con «altera e languida noncuranza», mentre i suoi teneri occhi oscuri seguono «chissà quali intimi, orgogliosi, splendori»), la passione immediatamente divampa.
Ma il Cugino non appartiene alla terra. Lui è come gli dèi dell’Olimpo che sì, s’invaghiscono degli umani e scendono sulla terra a prendersi il loro piacere, però non li elevano alla propria sede celeste. È capriccioso, tiranno, geloso persino dei gatti che Anna potrebbe carezzare distrattamente, ambiguo. E, pur amando follemente Anna, la tortura. È anche fragile, tuttavia: ha «l’aggressività malata che è propria delle creature effimere nella stagione del loro più grande fervore». Infatti, ha la tisi. E scompare: chiude brutalmente (o in un meraviglioso gesto di sacrificio), il suo rapporto con la cugina, facendosi sostituire — da vero despota quale è — da un suo amico: un ragazzo semplice, Francesco de Salvi (un finto barone, in realtà figlio di umilissimi contadini), segnato dal vaiolo, animato da un sentimento profondo di inadeguatezza sociale (come Anna), propugnatore di idee tanto incendiarie quanto retoriche di ribellione. È il «Butterato». Anna odia con ogni sua forza quell’individuo scuro e aggrondato che presto si rivelerà essere nient’altro che un bifolco, ma per le drammatiche condizioni economiche della sua famiglia (il padre Teodoro è morto, Concetta, la madre di Edoardo, mantiene lei e Cesira, colmando l’umiliazione) accetta di sposarlo. Il matrimonio è un inferno. Nasce una bambina: Elisa, la narratrice, che troviamo, all’inizio del romanzo, assediata dai suoi fantasmi, nella angusta cameretta di un palazzone romano di periferia. Elisa ama sua madre più di ogni altro essere al mondo: la vede come una regina, come una Madonna orientale. Anna non bada a lei: pensa solo a Edoardo e detesta il «Butterato», che frattanto, abbandonati i sogni di gloria, si è impiegato alle Poste e viaggia nei treni. Francesco, soffre pene indicibili. Un giorno, in città, ricompare Rosaria: una prostituta che ha amato Francesco e non ha mai smesso di amarlo, anche se lo ha tradito con Edoardo (che voleva tutto: pure la misera amante del suo amico). Con lei, il «Butterato» si consola di malavoglia delle sue sconfitte; o le annega nel vino. Riappare anche Concetta, vestita da mendicante: fa penitenza e chiede la grazia per Edoardo in pericolo di vita. Edoardo muore. Quando viene a saperlo dal portiere del palazzo, Anna fugge a casa «come una baccante». È l’inizio della sua follia: che fa da specchio a quella di Concetta. Le due donne leggono finte lettere che Anna si scrive da sola come se gliele scrivesse Edoardo. Muore pure Francesco: in un incidente. Muore Anna: consumata dal delirio della mente. Rimane Elisa, che viene accolta in casa da Rosaria, la quale torna a Roma a fare il suo mestiere di donnaccia.
Al centro di Menzogna e sortilegio campeggia l’amore di Anna e Edoardo. È un amore che non conosce limiti (i due si vedono identici, vedono uno nell’altra come gli amanti nel Fedro, e un giorno addirittura si scambiano i vestiti), ma l’eccesso sentimentale, e l’intransigenza, sono di tutti i personaggi, nessuno escluso. Tutti amano o odiano con una violenza che atterrisce. E non solo: tutti credono alle fantasie più inverosimili, ai viaggi più avventurosi, alle più spudorate menzogne che narrano o ascoltano. Così questo rispecchiarsi, questo processo di sommatoria — così ebbe a definirlo Giacomo Debenedetti — produce un affetto allucinatorio devastante. Come possono reagire i personaggi a una devastazione che non può che condurre alla morte? E come può farlo il romanzo, incarnato dalla malinconica e selvatica Elisa, che nei confronti della madre prova un sentimento non troppo diverso da quello «d’un selvaggio alla presenza di un simulacro sfolgorante»? È impossibile. «Invano — ella scrive — il mio giudizio tenta di chiamarla stupida, perversa e volgare… i suoi cattivi pensieri le splendono intorno al capo come un’aureola, e i desideri turpi e disumani che la trafiggono mi paiono spade sante». Infine, come si fa a non amare Edoardo con quel medesimo amore doloroso e impossibile che è al fondo segreto di ogni amore? E come descriverlo, se è ineffabile?
Eppure il romanzo resiste: sia al sortilegio che alla menzogna. La spettacolosa costruzione barocca, infiorata di arcaismi che, nella ripetizione ossessiva, spinge la frase in alto, trattiene una base di vero. Questo è il calco manzoniano del romanzo che, evidentemente, la Morante conservava nel subconscio quale punto fermo del reale e, in alcuni punti, offre somiglianze testuali sorprendenti. Menzogna e sortilegio inizia in una stanzetta e finisce nella camera in cui Anna muore. Anna ha delirato per undici giorni. Elisa le tiene la mano: accanto al letto. Finché, a un tratto, si accorge che la mano è fredda. Scrive Elisa: «Un vento invernale mi aggirò; fui risucchiata in una gelida acqua senza lumi. E l’amata camera materna, accesa dal mezzogiorno d’agosto, fuggì per sempre dai miei sguardi, come una nave straniera».

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