Rebibbia vista attraverso una recita
Rebibbia vista attraverso una recita ROMA — «Non perdiamo tempo», dice il regista Fabio Cavalli. «Quale tempo, è vent’anni che sono qua», risponde un detenuto. Carcere di Rebibbia, sezione di alta sicurezza. Una ventina di reclusi, di cui alcuni ergastolani, condannati per camorra, omicidio, droga, provano il Giulio Cesare di Shakespeare. Una piccola troupe guidata da due maestri del cinema, Paolo e Vittorio Taviani, li riprende.
Dopo quasi cinque anni, tornano al cinema con Cesare deve morire, ospitato l’11 febbraio in concorso (unico italiano) al Festival di Berlino per poi uscire il 2 marzo. Fuori gara, il film di Daniele Vicari sulla folle irruzione della polizia nel 2001 alla Diaz di Genova, accredita l’idea di un’Italia «violenta» alla Berlinale.
Dunque, i Taviani. Una cara amica ha chiesto loro: «Volete piangere a teatro? Venite con me a Rebibbia». «Siamo andati con curiosità e diffidenza», rispondono con una voce sola, «i detenuti recitavano alcuni Canti dell’Inferno, ogni tanto si interrompevano dicendo qualcosa di personale sull’amore. Siamo rimasti colpiti dalla forza di persone escluse dagli affetti, certo con delle colpe, che col teatro hanno la possibilità di essere altro. E in quei momenti sono liberi». Il film, girato in bianco e nero (tranne la sequenza della messinscena), è nato così, da quell’invito, perché «la vita non è solo volontà, è anche caso e mistero». I detenuti recitano in dialetto, o accentando le parole. E rispettando il tessuto narrativo rivestono Shakespeare «di una verità nuova, come se non l’avessimo mai sentito prima».
Si parla di libertà e tirannia, di congiure e uomini d’onore. È anche il linguaggio delle sbarre. I Taviani raccontano sia Bruto che Sasà e gli altri reclusi, personaggi coi pugnali di plastica e persone segnate dalla colpa si sovrappongono, come si sovrappongono le parole del Bardo e i codici del carcere, «due mondi egualmente forti». Bruto prova la parte nel letto della cella, l’orazione di Cassio avviene nello spazio vuoto e assolato dove giocano a pallavolo, l’uccisione di Cesare nel luogo in cui prendono l’ora d’aria. Com’è stato l’impatto col carcere? «Le porte erano semichiuse, vedevamo uomini sdraiati, immobili, silenziosi, con gli occhi all’insù. “Col soffitto ci parliamo”, dicevano. Per la traduzione in dialetto si facevano aiutare dai conterranei, c’era qualcosa di infantile». Al provino per il cast, come spesso fanno i Taviani, hanno chiesto di dire le loro generalità in due modi, prima con dolore e poi arrabbiati. Non sono mancate tensioni da parte di alcuni detenuti che erano stati esclusi. Occhiate, malumori, sguardi d’intesa col loro «capo». I Taviani un giorno hanno gettato la spugna: «Torniamo solo se ci richiamate». Una settimana dopo arriva la telefonata di Cavalli, il regista che da anni si dedica al teatro nelle carceri: «Vi aspettano».
«Ci hanno accolto con un applauso, senza più porre condizioni. Abbiamo lavorato con la stessa incoscienza e spavalderia dei nostri primi film. Un’esperienza piena di contraddizioni, dove Shakespeare era l’elemento catalizzante».
Le guardie, finita la prova, riportano in cella gli attori che tornano detenuti. Un film asciutto e potente. «C’è il nostro modo di vedere la vita attraverso il cinema, inquadrature fisse, essenziali»; uno stile «il più severo e rispettoso possibile. La scelta del bianco e nero, ora che è stato dimenticato, dà un tono irrealistico: l’elemento naturalistico della tv è sempre in agguato».
Un ergastolano disse una frase struggente e ambigua con cui i Taviani hanno voluto concludere il film: «Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione». «Quella battuta ci fece decidere di realizzare il progetto. L’arte ti libera e ti imprigiona, fa ritrovare te stesso e ti rende più chiaro che sei condannato al silenzio».
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