Caselli e il br rimesso in cella 38 anni dopo

Le vite parallele del procuratore e dell’ex operaio diventato terrorista

Le vite parallele del procuratore e dell’ex operaio diventato terrorista Quando ha letto la prima volta quel nome tra le carte della polizia, Gian Carlo Caselli ha avuto un moto d’incredulità: «No, non può essere lui». Ma poi ha controllato, e quel signore «dalla corporatura magra e di altezza media, carnagione chiara ed età verosimilmente avanzata», ripreso il 3 luglio 2011 mentre «scaglia con violenza, in rapida successione, quattro sassi di grosse dimensioni in direzione del personale in divisa», veniva individuato proprio in Paolo Maurizio Ferrari, nato a Modena il 22 settembre 1945; la stessa persona che Caselli aveva fatto arrestare trentotto anni prima. Lui era un giovane giudice istruttore torinese, alle prese con le prime azioni di un gruppo che si firmava Brigate rosse, e Ferrari un giovane militante dell’organizzazione sulla cui genuinità molti nutrivano ancora dubbi, chiamandole «sedicenti» Br. Così il nastro della memoria s’è riavvolto, facendo affiorare una figura che il magistrato pensava fosse definitivamente uscita dal suo orizzonte professionale. Invece no.

Finito in carcere il 27 maggio 1974 per un’impronta digitale trovata sul furgone usato per sequestrare il sindacalista della Cisnal Bruno Labate — rilasciato dopo poche ore, rasato a zero e con un cartello al collo con la stella a cinque punte, davanti ai cancelli della Fiat), Ferrari annunciò: «Sono un militante comunista, cresciuto nelle lotte operaie dal ’69 ad oggi. Da sempre le galere sono terreno rivoluzionario, non mancherò di essere al mio posto nella lotta». È quel che fece, a modo suo. Col suo barbone rosso, nell’aula della corte d’assise dove si celebrò il primo processo al nucleo storico delle Br era uno dei portavoce. Quello che avvisò i difensori d’ufficio: «Considereremo quelli che accetteranno il mandato collaborazionisti e complici del tribunale di regime; essi si assumeranno tutte le responsabilità che ciò comporta di fronte al movimento rivoluzionario». Era una minaccia di morte, e nel ’77 i compagni di Ferrari in libertà assassinarono il primo tra gli avvocati d’ufficio, il presidente dell’Ordine Fulvio Croce.
Alla fine del processo il brigatista dai capelli rossi che dalla gabbia aveva inneggiato insieme agli altri all’omicidio di Aldo Moro — accusato di sequestro di persona, rapina e altri reati, nessun fatto di sangue — prese tredici anni di galera. Da detenuto, però, ha accumulato talmente tante denunce e condanne da uscire solo nel 2004: istigazione a delinquere, oltraggio, violenza o minaccia, truffa, danneggiamento, detenzione illegali di armi e munizioni, resistenza. Tutti reati commessi dietro le sbarre, dove ha trascorso trent’anni senza aver mai sparato un colpo di pistola, e senza chiedere un permesso né giorno di sconto; nemmeno quelli che gli spettavano automaticamente. «Ho cercato di lottare come meglio di me hanno fatto milioni di proletari ieri, oggi e faranno domani», scrisse nel 1980 nell’unica lettera inviata alla signora che gli aveva fatto da madre nella comunità per orfani di Nomadelfia, dov’era cresciuto prima di diventare operaio e poi brigatista; quella fondata da don Zeno Saltini, il prete accusato dal Sant’Uffizio e ridotto allo stato laicale da Pio XII, riammesso nel clero da Giovanni XXIII e del quale è oggi in corso la causa di beatificazione. Del «nostro ragazzo Maurizio», don Zeno disse: «Penso che non sia un delinquente, ma un guerriero, che combatte contro i suoi nemici».
La pensava così anche Ferrari, che uscito di prigione ha trovato un altro mondo rispetto a quello che aveva lasciato nel 1974. Nel quale ha riguadagnato il suo spazio di contestatore-combattente. S’è avvicinato ai centri sociali e gruppi più estremi, sfilando nei cortei antagonisti accanto a giovani che potrebbero essergli figli o nipoti. Con pochi capelli e la barba ormai bianca, senza alcun imbarazzo. Nel 2007 è all’Aquila, davanti al penitenziario dov’è rinchiusa la neo-brigatista Nadia Lioce, responsabile degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, per manifestare contro il «carcere duro» imposto a chi ha raccolto l’eredità delle Br. E nell’aprile 2011 non ha timore a farsi fotografare imbacuccato come un Babbo Natale, che invece del sacco dei doni tiene in mano uno striscione: «Contro la guerra dei padroni, a fianco di chi insorge».
Negli atti della polizia politica si ammucchiano nuove denunce per manifestazione non autorizzata, associazione con finalità di terrorismo ed eversione, apologia sovversiva, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, invasioni di terreni ed edifici, resistenza. Fino ai fotogrammi del 3 luglio scorso, che all’alba delle 67 primavere l’hanno riportato in galera. Con la firma, tra gli altri, di Gian Carlo Caselli, lo stesso magistrato di trentotto anni prima. Il quale nel frattempo aveva lasciato Torino per il Csm a Roma, e poi la Procura di Palermo, la guida delle carceri, Bruxelles e ancora Torino, da procuratore generale e poi procuratore. E mai avrebbe immaginato, giunto a fine carriera e archiviata per sempre la buia stagione del terrorismo, di avere ancora a che fare con quella «testa dura» di Paolo Maurizio Ferrari.
Giovanni Bianconi

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