Indisponibile al pensiero di Stato

BOURDIEU Un classico ignorato nella provincia italiana
Eterodosso e non accademico. Uno studioso ai margini nelle scienze sociali del nostro paese

BOURDIEU Un classico ignorato nella provincia italiana
Eterodosso e non accademico. Uno studioso ai margini nelle scienze sociali del nostro paese

Se si dovesse valutare la notorietà e l’influenza di Pierre Bourdieu dai libri che gli sono stati dedicati in Italia, o dall’attenzione che si dà al suo lavoro nei manuali di sociologia nostrani, si dovrebbe concludere che il suo posto nelle scienze sociali è alquanto marginale. Poco amato e ancor meno studiato, nel nostro paese Bourdieu è un «ospite di scarso riguardo» (secondo la definizione di Angelo Salento), che non conviene affatto portare nei salotti buoni della sociologia, pena l’esclusione dai giochi che hanno come posta il potere accademico e la stessa definizione dei confini del campo disciplinare.
Ma per fortuna il caso italiano costituisce un’eccezione, davvero più unica che rara, in un panorama mondiale di tutt’altro segno. Se nel nostro paese il processo d’importazione dell’opera bourdieusiana, pur iniziato nei lontani anni Settanta, è stato discontinuo e frammentario, e si è risolto, salvo rare eccezioni, in una sostanziale rigetto, a livello internazionale, al contrario, Bourdieu è uno degli intellettuali più conosciuti e influenti, sia dentro che fuori dai confini del campo sociologico. La notorietà internazionale di Bourdieu è attestata non solo dalla traduzione sistematica delle sue opere in moltissime lingue e in numerosi paesi, ma anche dal costante proliferare della letteratura critica consacrata al suo lavoro di ricerca e al suo pensiero. Se nei paesi anglosassoni, ma anche in Germania, nei Paesi scandinavi e in America Latina, per non parlare naturalmente della Francia, si guarda ormai a Bourdieu come a un classico, un punto di riferimento ineludibile per molti campi della ricerca sociale, in Italia dobbiamo confrontarci con uno sconcertante primato negativo, che colloca il nostro Paese tra i più refrattari all’opera di Bourdieu. Lo stesso milieu culturale che ha accolto quasi con reverenza altri esponenti delle scienze sociali d’oltralpe – si pensi anche solo ad Alain Touraine e Raymond Boudon, a Jürgen Habermas e Niklas Luhmann, ad Anthony Giddens, Erwin Goffman e, da ultimo, a Zygmunt Bauman – e che ha eletto costoro a prestigiosi indicatori del superamento del provincialismo nostrano, ha riservato a Bourdieu un’accoglienza fredda e distaccata. Cosa peraltro testimoniata non solo dalla incredibile scarsità di letteratura critica che gli è stata dedicata. E se altrove coloro che ritengono di non poter condividere la prospettiva bourdieusiana si sono quanto meno misurati con il dibattito pubblico, da noi si è preferito più che altro ostentare indifferenza e astenersi dal confronto aperto.
Naturalmente questa vicenda ci parla molto più della sociologia italiana di quanto non ci parli di Bourdieu: «Il senso e la funzione di un’opera straniera sono determinati dal campo di ricezione almeno quanto dal campo di produzione» scrive lo stesso sociologo francese in un articolo pubblicato nei «Cahiers d’histoire des littératures romanes» (Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, 1990). Proviamo dunque a seguire il suo suggerimento, e a ipotizzare alcune delle ragioni che possono aver influito sulla pessima ricezione italiana.
Non c’è dubbio che uno dei motivi risieda nella postura radicalmente eterodossa rispetto ai tradizionali codici della sociologica accademica. Il modus operandi di Bourdieu, autentica sfida alla tradizione sociologica, ha certamente favorito incomprensioni e rigetti. E ha certamente influito sulla scarsa considerazione riservatagli anche il ribaltamento della gerarchia degli oggetti scientifici «legittimi» consacrata dall’accademia, così come la sostanziale noncuranza per le frontiere – «false» e «artificiali» – che strutturano la divisione del lavoro interna alle scienze sociali, contro la quale Bourdieu si è sempre battuto. Un motivo d’incomprensione, quest’ultimo, per chi, cultore specialistico dei diversi segmenti in cui è parcellizzata la sociologia, ha difficoltà a cogliere la complessiva portata teorica del raffinato e rigoroso lavoro scientifico prodotto da Bourdieu.
Ma quel che ha reso Bourdieu così poco digeribile da noi, è la critica, durissima, che egli ha lanciato contro la sociologia corrente, giustamente accusata di «omettere una radicale messa in questione delle proprie operazioni e dei propri strumenti di pensiero» e di riprodurre così, sotto forma di senso comune scientifico, il «pensiero di Stato», ultima e più efficace forma di legittimazione del dominio.
Basterebbe del resto dare una scorsa alle 650 pagine del volume che raccoglie i corsi sullo Stato tenuti al Collège de France dal 1989 al 1992, uscito proprio in questi giorni per Seuil (Sur l’État, Seuil) per avere un’idea del perché Bourdieu abbia trovato tanta resistenza a casa nostra. Quest’esposizione sistematica del pensiero bourdieusiano sullo Stato, finora inedita, mostra tutta la radicalità di un progetto scientifico che non può non venire percepito come minaccioso da parte di un campo sociologico che ha una così scarsa propensione per la critica dell’esistente e che è così incline, in questo nostro sconcertante presente, a farsi sedurre dal «pensiero di Stato». «Il nostro pensiero e le strutture stesse della coscienza attraverso la quale noi costruiamo il mondo sociale (…) hanno buone chances di essere il prodotto dello Stato», leggiamo nella pagina d’apertura del volume. «Finzione collettiva» al servizio del «monopolio dell’universale», «banca centrale del capitale simbolico» e «principio dell’ortodossia» indispensabile alla produzione e riproduzione della sottomissione dossica all’ordine delle cose, lo Stato è all’origine della credenza nella legittimità del dominio e dell’ordine sociale così com’è.
E la sociologia, scienza politica per la natura stessa del suo oggetto, è naturalmente coinvolta nelle strategie di dominio in cui è inevitabilmente inserita, a meno che non metta in atto quel «dubbio radicale» che è indispensabile per non rimanere preda dell’inconscio collettivo che, inscritto nelle teorie, nelle categorie, e negli stessi problemi che guidano la costruzione dell’oggetto di ricerca, non fa altro che riproporre la semplice trascrizione del senso comune. Che altro non è che il punto di vista dei dominanti, travestito da punto di vista universale. Per l’originalità dell’impianto teorico e la radicalità degli esiti, questa idea di sociologia, mentre contribuisce a dare un senso alla particolarità della ricezione italiana, al contempo colloca a pieno titolo l’opera di Bourdieu nell’alveo del pensiero critico del Novecento, accanto a coloro che hanno inteso praticare la scienza sociale come «critica della società», che si contrappone programmaticamente alla «sociologia ufficiale, la quale procede – invece – secondo le regole di una scienza classificatoria», secondo la nota formulazione dei francofortesi. Nella convinzione bourdieusiana che il compito della sociologia consista nell’analisi razionale del dominio, e nella polemica nei confronti di chi, «apologeta dell’esistente, mette i propri strumenti razionali di conoscenza al servizio di un dominio sempre più razionalizzato» (Méditations pascaliennes), non possiamo mancare di scorgere uno dei motivi di fondo dell’accoglienza così poco ospitale che l’Italia ha riservato a Bourdieu.

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Pratica della scienza e movimento noglobal
Pierre Bourdieu si è caratterizzato, nelle sue ultime opere, sul concetto di «campo», con il quale delineava non solo il campo di indagine, ma anche i rapporti sociali che operavano preventivamente alla sua definizione e alla relazioni di potere «interni». Da questo punto di vista vanno segnalati sicuramente i volumi: «Sul concetto di campo in sociologia» (Armando); «Le strutture sociali dell’economia» (Asterios); «Campo del potere e campo intellettuale» (manifestolibri); « Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario» (Il Saggiatore); «Controfuochi» (Promozione libri» e «Controfuochi 2» (manifestolibri)

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