Sbirri bastardi, la violenza nascosta sotto il plexiglass

CINEMA Arriva nelle sale «Acab», tratto dal romanzo di Carlo Bonini

CINEMA Arriva nelle sale «Acab», tratto dal romanzo di Carlo Bonini
Incastrato per caso tra il Black Block di Carlo A. Bachschmidt visto al Festival di Venezia e Diaz – Don’t clean up this blood di Daniele Vicari che rappresenterà l’Italia alla Berlinale numero 62, arriva venerdì prossimo nelle sale italiane Acab. All cops are bastards. L’esordio cinematografico di Stefano Sollima, regista della fortunata serie televisiva di Romanzo Criminale, che questa volta ha tradotto sul grande schermo l’omonimo libro di Carlo Bonini (Einaudi 2009) sull’odio trasversale per gli sbirri. Acab è un vecchio grido di battaglia degli skinheads inglesi di fine anni settanta, un acronimo che nel nuovo secolo si è affacciato negli stadi di calcio e nelle manifestazioni politiche come un richiamo universale alla guerriglia contro i poliziotti. Celerini bastardi per tutti, nelle strade e nelle curve, a destra come a sinistra.
Il film racconta la vita di tre poliziotti del Reparto Mobile della capitale che accolgono all’interno del loro gruppo tutto onore, violenza e fratellanza una giovane recluta un po’ idealista e la iniziano al pane quotidiano dei caschi blu: gli scioperi nei cantieri, gli sgomberi dei campi rom, le domeniche in guerra con gli ultras. Pierfrancesco Favino è Cobra, il più fascista, duro e credibile dei tre. Filippo Nigro il più fuori di testa, mollato dalla moglie cubana e da una vita che gli crolla addosso. Marco Giallini è Mazinga, l’anziano del gruppo che si becca una coltellata al ginocchio fuori dallo stadio e fa i conti con un figlio naziskin che lo chiama servo. Domenico Diele è la recluta con gli amici tatuati di Acab che vuole fare il poliziotto perché «è un lavoro onesto». Tutto si svolge tra l’inizio e la fine del 2007, un anno segnato a lutto dalla morte dell’ispettore Raciti allo stadio di Catania, l’assassinio di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto che dà il là alla campagna elettorale di Alemanno sindaco e la tragica fine di Gabriele Sandri, ucciso in una stazione di servizio dall’agente Spaccarotella.
Spiega il regista. «Ho provato a fondere insieme il cinema politico di una volta e il film di genere. Se Romanzo Criminale era genere puro, qui è tutto più difficile, sfumato, un materiale molto complicato da maneggiare. Volevo fare un poliziesco anni ’70 che affrontasse i temi dell’odio sociale e dell’intolleranza della nostra società. Un intrattenimento intelligente, senza alcuna ideologizzazione. Non è un film a favore della Celere, non rappresenta il loro punto di vista. E’ piuttosto un viaggio nel loro mondo chiuso e controverso». Conferma Carlo Bonini, inviato di punta di Repubblica con un passato al manifesto. «Il libro e il film hanno entrambi l’aspirazione di scartare rispetto a una lettura in bianco e nero di questa realtà. Negli ultimi 15 anni l’Italia ha sviluppato un senso comune di destra, ha ruminato topos della destra popolare. Il capovolgimento del punto di vista, il mettersi dietro il plexiglass del casco blu toglie la museruola al rottweiler che c’è in noi».
Attore impegnato e dalle note simpatie politiche, Favino va dritto al punto. «Il web è già pieno di gente che dibatte se sia una pellicola moralista. Qualcuno ci vede L’odio al contrario, qualcun altro Tropa de elite. Per me è soltanto un film morale che racconta la realtà così com’è senza dare giudizi su chi è più cattivo. Quando ho incontrato i celerini per preparare il mio personaggio, c’erano anche quelli del famigerato Settimo, il nucleo di agenti creato apposta per il G8 di Genova. Ognuno aveva il suo carico di pregiudizi. Io pensavo che fossero dei picchiatori fascisti, loro pensavano che io fossi un attore viziato e fintamente progressista. La realtà è sempre più complicata di quello che sembra. Io ho dormito male per tutta la lavorazione del film, sono stato costretto a mettere in discussione tutte le mie idee. Quando avevo vestito i panni del Libanese nessuno mi aveva fatto domande così perniciose, eppure quello era uno spacciatore che ammazzava le persone. Pasolini e i poliziotti di valle Giulia figli di poveri e contadini non sono più attuali. Certo c’è ancora chi entra in polizia per avere uno stipendio fisso ma è vero pure che per 1300 euro questi ragazzi vanno a fare la guerra negli stadi».
Il G8 di Genova è un fantasma che aleggia su tutto il film. A un certo punto Mazinga lo dice chiaro, «quella brutta storia ci ha compromessi a tutti». Diele ricorda che all’epoca aveva 15 anni e vide le immagini con suo padre al mare. «Pensai che era un bel macello». Favino invece era a Rimini a girare Da zero a dieci con Ligabue. «Ero al bar e ho avuto la stessa sensazione di quando da bambino avevo guardato in tv le immagini della strage di Bologna e molto dopo quelle dell’11 settembre. La sensazione che l’asse terrestre si stesse spostando. E’ una ferita alla democrazia che non si è ancora rimarginata ed è importante che anche il cinema finalmente la racconti». Sollima l’ha lasciata sullo sfondo. L’irruzione dei celerini nel covo degli ultras rimanda alla Diaz ma non va oltre. «Il G8 è una storia terribile ma già scritta. Un caso talmente eccezionale che non ci avrebbe permesso di declinare la normalità del poliziotto».

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password