Vengono prima i poveri, carcerati, malati, stranieri

Vado a salutare il cardinale Martini. Tra pochi giorni farò l’ingresso come nuovo vescovo della diocesi di Novara. È stato il vescovo della mia maturità  di prete. Parliamo lungamente con lo sguardo sul momento presente della Chiesa e del mondo. La sua voce impercettibile interviene pochissimo con parole acuminate e incoraggianti. A un certo punto mi chiede: che programma hai per Novara? Fa portare dal segretario un libretto, fresco di stampa: Il vescovo. Mi dice: l’ho voluto scrivere di mia mano con fatica. Uscirà  a giorni. A casa lo leggo tutto d’un fiato.

Vado a salutare il cardinale Martini. Tra pochi giorni farò l’ingresso come nuovo vescovo della diocesi di Novara. È stato il vescovo della mia maturità  di prete. Parliamo lungamente con lo sguardo sul momento presente della Chiesa e del mondo. La sua voce impercettibile interviene pochissimo con parole acuminate e incoraggianti. A un certo punto mi chiede: che programma hai per Novara? Fa portare dal segretario un libretto, fresco di stampa: Il vescovo. Mi dice: l’ho voluto scrivere di mia mano con fatica. Uscirà  a giorni. A casa lo leggo tutto d’un fiato.
È un piccolo libro pensato nella scia della grande tradizione del «Liber pastoralis», da Gregorio Magno a Carlo Borromeo. Non frequenta le grandi vette della teologia. Vi rimanda consapevolmente. Doveva essere — dice la nota introduttiva dell’editore — la primizia della collana «La cura delle parole». Ne è come il numero zero, affidato a «un vero maestro di cura delle parole». E così è scritto. Vuole parlare del vescovo per «tirarlo giù dalla nicchia e vederlo a contatto con la gente… con un’immagine meno vaporosa e ieratica, più viva e senza false pretese».
Martini, maestro della Parola, è capace di tessere sulla trama del linguaggio umano una riflessione sapienziale, venata di ironia e disincanto, di punte graffianti e sapide notazioni. Lo consegna a tutti coloro che si domandano il senso dell’autorità nella Chiesa e della sua presenza nella società civile.
Le parole hanno bisogno di cura, altrimenti si consumano. Anzi, corrompono il nostro rapporto con il reale, perché sono la porta sul mistero dell’essere. L’etimologia del termine «vescovo» (da epi-skopein: sorvegliante, guardiano, guida, pastore) tende a schiacciarne la figura sul tema dell’autorità. Questa, nella comunicazione pubblica gode oggi di cattiva fama. Martini la sottrae alla sua concentrazione sul potere di governo per mettere in rapporto il vescovo con la Parola e la sua azione santificatrice. Quando era a Milano, diceva sovente di sentire l’onere di essere un simbolo anche per la città.
La figura pastorale del vescovo è letta sullo sfondo dei grandi testi della tradizione biblica, che ne sottolineano la dedizione, l’amorevolezza e il mandato che viene da Cristo. Ne emerge un’immagine persuasiva che fa del vescovo un «servitore della Parola di Dio». Martini stesso ne è stato come l’icona: «Egli deve avere il Vangelo dentro se stesso e quindi essere un Vangelo vivente».
Sorprenderà non poco, anche coloro che non frequentano la lingua della Chiesa, il suo insistente richiamo al legame del vescovo con la Chiesa celeste: egli deve «essere uomo di preghiera, soprattutto di preghiera di intercessione». Per concludere in modo icastico: «Se si vuole un vescovo profeta, bisogna dargli molto tempo per pregare».
L’immagine a tutto tondo profilata da Martini nel capitolo cruciale del piccolo libro rilegge radicalmente il tema dell’autorità. Il suo è un potere illuminante e liberante che partecipa ai gesti di liberazione dal male di Gesù e trasmette la forza del lievito evangelico. L’autorità nella Chiesa ha la forma testimoniale, perché mette in contatto vitale la coscienza con la Parola. Come ebbe a dire in un testo folgorante, il terreno non sta senza il seme: «Terreno e seme sono stati creati l’uno per l’altro. Non ha senso pensare al seme senza una sua relazione con il terreno. E quest’ultimo senza il seme è deserto inabitabile. Fuori della metafora: l’uomo così come noi lo conosciamo, se taglia ogni sua relazione con la Parola, diviene steppa arida, torre di Babele».
La punta di diamante della figura del vescovo secondo Martini si dispiega poi nel terzo capitolo in modo godibile da parte di tutti. Sono passati in rassegna tutti i contatti del vescovo: con i non credenti, i poveri, i malati, i carcerati, gli stranieri. Poi l’ampia rosa delle relazioni ecclesiali: i fedeli, i collaboratori, i preti e diaconi, i teologi, il seminario, i religiosi, il mondo missionario. Per terminare con le istituzioni, gli ebrei e il mondo dei media. È il capitolo più «martiniano», dove si tratteggia l’immagine del vescovo che si lascia guidare, nella dialettica con il mondo, dalla domanda: quid hoc ad Evangelium?, «quello che faccio e dico che cosa ha a che fare col Vangelo?».
Un testo provocante che non disdegna neppure il confronto con la pesantezza burocratica della vita della Chiesa e la relazione con le diverse istanze della chiesa universale.
Infine, sul margine del libro, le caratteristiche attuali di un vescovo: l’integrità, la lealtà, la pazienza e la misericordia. Scolpite con lo stilo di un sapiente biblico e consegnate idealmente a un giovane vescovo. Come la chiusa finale del libro: «Un uomo umile, che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità. Che sa riconoscere i propri errori senza troppe autogiustificazioni. Dunque anzitutto un uomo vero».
Un Martini d’annata!

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password