Kertész, fuga senza fine da Auschwitz

La ferita del lager non si può rimarginare nel diario-romanzo del Premio Nobel

La ferita del lager non si può rimarginare nel diario-romanzo del Premio Nobel Bompiani pubblica Io, un altro di Imre Kertész, lo scrittore ungherese, Premio Nobel nel 2002. (Il precedente stampato dallo stesso editore si intitolava Il vessillo britannico).

Molti ricorderanno anche l’impareggiabile Essere senza destino (Feltrinelli) premiato col «Flaiano», un anno prima del Nobel. Sì, Imre Kertész è uno dei maggiori scrittori viventi e alcuni suoi libri sono all’altezza di Primo Levi, al quale si può paragonare per la somiglianza di temi e di esperienze umane fatte durante la Seconda guerra mondiale. In un’epoca in cui dominano i romanzi «rosa», o polizieschi, e pare che per altri generi non ci sia spazio, l’apparizione di questo libro piccolo, 135 pagine, vivace e dolente, ma anche umoristico, è un vero regalo. Testimonianza del fatto che esistono altre letterature, altri gusti, anche se occorre pazientemente cercarne le tracce.
Il volumetto di Kertész parla di un tema che ci porta nel sottosuolo, negli abissi dell’animo e del destino. Si tratta del vagare di un sopravvissuto ad Auschwitz nei Paesi centrali dell’Europa, negli anni dell’apertura dei confini, la caduta del muro di Berlino. Un cammino solitario, compiuto per la prima volta in libertà, su inviti di associazioni letterarie e religiose, di amici dell’Europa occidentale. Ma com’è questo viaggio, per chi si è salvato ad Auschwitz e finalmente è fuori anche dalle galere staliniane? È come vedere le cose essendo diventati completamente «altri», estranei a sé stessi e al mondo, alla propria vita precedente? È come risvegliarsi sotto l’effetto di una metamorfosi totale. Ma non è la crisalide che si trasforma nell’angelica farfalla come nella Divina Commedia di Dante, o nella poesia del giovane poeta di Gorizia Carlo Michelstaedter vissuto all’inizio del Novecento, (Il canto delle crisalidi). Non è in qualcosa di nuovo e promettente che la crisalide si trasforma qui, bensì in un essere estraneo a tutto, a tutti, a se stesso e all’intero Universo. La piaga inferta dall’orribile esperienza di Auschwitz e poi dalla dittatura staliniana non si rimarginerà più, perché anche quella del mondo nuovo, sempre più conformista e violento, indifferente, vuoto, avido, non sembra più guarire. Lo scrittore, nel suo pellegrinaggio in questo paesaggio deserto, come la Waste land di Eliot, a volte sovraffollato, luccicante, cerca con tutte le forze un appiglio alla vita, a qualche parvenza di esistenza sopportabile. Incontri fugaci, viaggi in automobile con donne mai nominate, nottate allucinanti in edifici vuoti nell’ex Germania dell’Est, costellano questo diario della metamorfosi. Sprazzi di veri sentimenti umani baluginano nell’oscurità, per un attimo si presentano anche momenti di felicità, ma tutto è rivolto verso una meta dove esistono soltanto i grandi interrogativi sullo scopo di vita e morte. L’ultima immagine del libro può rammentare una delle figurine umane di Giacometti: un uomo cammina con un piede già alzato e la testa rivolta all’indietro. Il passo condurrà alla morte ma lo sguardo è ancora affisso sulla vita.
Come tutti i libri di Kertész, Io, un altro è pervaso da un sentimento di acuto pessimismo, ma analogamente non è affatto distruttivo. Anzi. Vi sono molti riferimenti a celebri brani musicali e a opere di grandi narratori e poeti; qui non si tratta, come in molti libri che vogliono compiacere il lettore e il mercato, di puri elenchi di azioni e sensazioni. Si parla, in modo chiaro e semplice, anche se a volte addolorato, di smarrimenti, riflessioni, rimpianti, disperazione.
Eppure la lettura dà un certo slancio a chi la compie (in due ore al massimo), come capita soltanto con i grandi autori. Giacché di fatto si scopre un senso, in questo vuoto, in questa violenza e volgarità. In vari episodi narrati, come in quello dell’incontro con un barbone antisemita e ubriaco a Berlino, c’è una forma di umorismo tanto sottile e solare come è impossibile trovare nelle opere scritte per distrarre o intrattenere.
E a proposito di antisemiti: proprio nell’Europa centrale, dove è nato ha vissuto (e ha sofferto) Kertész, si stanno ridestando, nemmeno tanto nascosti, sprazzi di razzismo d’antico stampo. Questo libro parla anche di questi fenomeni, senza enfasi né esagerazione, ma con attonita obbiettività, come del resto in Essere senza destino. Direi che quel tono, quell’approccio alle grandi tragedie del Novecento ha trovato una voce, oltre a quella di Primo Levi e del poeta tedesco Paul Celan, soltanto nelle opere di Kertész.
La grandezza consiste soprattutto in questo: c’è molto di più della pura tragedia, c’è l’apparente considerazione dell’orrore come cosa che avviene in modo naturale, quasi logica, giustificata per la sua ineluttabilità sotto gli occhi di un ragazzo di 15 anni.
Del resto Kertész negli altri libri descrive con identico piglio le orrende angherie a cui quel ragazzo, ormai uomo di mezza età, viene sottoposto nell’Ungheria stalinista. O in quella d’oggi, nel ridestarsi di vecchi sentimenti razzisti che, all’epoca del conferimento del Nobel a Kertész, hanno fatto dire a qualche sciagurato collega che l’Ungheria non poteva vantarsene, giacché Kertész non è ungherese ma ebreo.
Oggi Imre Kertész ha scelto di vivere in Germania, a Berlino, dove ha cominciato a essere noto prima che altrove, prima della sua patria stessa. In Germania i suoi libri sono stati acquistati da un considerevole numero di lettori, discussi in conferenze, incontri e convegni. La vita in qualche modo premia chi riesce a sopportarne le prove più terribili, come è capitato a Kertész o al triestino Boris Pahor, anche lui reduce da vari lager. Il fatto che comincino a essere letti e stimati da un vasto pubblico quasi come eroi vittoriosi può essere considerato un segno incoraggiante: il lettore non è ridotto al livello di un cane da carezzare e consolare con uno zuccherino. Sopporta l’immersione nelle profondità e nella sofferenza altrui, non solo in quella esibita come oggetto di spettacolo. Kertész ha 82 anni, Pahor 99. Li conosco tutti e due, con Kertész ci si può dire amici. È un uomo solare, benigno. Non si lamenta mai. Chi come me ha vissuto da bambino o vive oggi esperienze in qualche modo simili alle loro si aggrappa al ricordo della loro vittoria, come nel Processo di Kafka chi canta in coro si aggrappa alla voce dei cantanti più vicini.

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