Un cyborg in movimento

POLITICHE ON LINE. Un sentiero di lettura attorno al rapporto tra Internet e democrazia. I social network come luoghi in cui le forme politiche tradizionali mostrano la loro incapacità  di rispondere alle domande di partecipazione maturate all’interno dei movimenti sociali Radicali, interattivi e disincantati nel volume «Nuovi media, nuova politica?» curato da Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari. Mentre il centro studi Apses propone un «Manuale di comunicazione politica in Rete» Un «digital divide» generazionale.

POLITICHE ON LINE. Un sentiero di lettura attorno al rapporto tra Internet e democrazia. I social network come luoghi in cui le forme politiche tradizionali mostrano la loro incapacità  di rispondere alle domande di partecipazione maturate all’interno dei movimenti sociali Radicali, interattivi e disincantati nel volume «Nuovi media, nuova politica?» curato da Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari. Mentre il centro studi Apses propone un «Manuale di comunicazione politica in Rete» Un «digital divide» generazionale.
Potrà Internet salvare la democrazia dallo spettro illusorio della tecnocrazia, cioè del liberismo perseguito con altri mezzi? Secondo il «Time» sì, visto che il magazine statunitense ha eletto persona dell’anno 2011 «the protester». Non un individuo singolo ma una categoria di persone: le donne e gli uomini che in tutto il mondo sono scesi in piazza dando vita ad una molteplicità di movimenti sociali, piuttosto eterogenei tra loro, tutti accomunati da una spinta democratica radicale e, soprattutto, dall’uso massiccio di Internet, del web 2.0, come forma di organizzazione e di manifestazione del pensiero. Da questo punto di vista e da quello dell’immaginario collettivo, potentemente – e paradossalmente – rinforzato dai discorsi mediatici, se il no-global di fine millennio nasceva fuori la Rete e si rivolgeva ad essa in modo strategico, «the protester» è già una figura post-umana: un «cyborg in movimento» che agisce contemporaneamente nelle piazze e nella Rete.
Interconnesso, scolarizzato, the protester è dunque il tentativo di rinnovamento della politica e della democrazia anche attraverso la Rete. Questo tema non è certo una novità per la stampa americana: quando sempre il «Time» indicò in Barack Obama l’uomo dell’anno, anche in quel caso il settimanale segnalava l’identica forza della politica (dall’alto) costruita attraverso il massiccio uso dei nuovi media. Così come Internet e in particolare i social network sono stati accusati dai mass media di veicolare l’isolamento sociale e la corruzione morale presso i giovani, ora, dopo la comparsa e l’ascesa di «the protester», tutti si sono affrettati ad esaltare le «magnifiche sorti e progressive» di Internet.
La recente pubblicazione nel nostro paese di tre volumi, tutti di taglio empirico che riportano i risultati di studi compiuti sul campo, aiuta a liberarsi da atteggiamenti preconcetti come questi e a leggere in chiave critica il complesso rapporto tra politica e nuovi media. Innanzitutto all’interno della politica e della democrazia italiane, annichilite in questa fase dallo spettro incarnato della tecnocrazia neo-liberista e dal riproporsi di un iper-moderno rapporto verticistico tra governanti e cittadini, tra saperi (tecnici) e istanze sociali, tra intellettuali e popolo. In un ideale percorso di lettura, il primo volume da prendere in considerazione è il «IX Rapporto sulla comunicazione» del Censis (Franco Angeli).
Oltre al troppo ridondante e non sempre giustificato empiricamente, richiamo al potenziamento delle reti di banda larga, che viene riproposto in ogni parte del rapporto come soluzione a tutti i problemi di uso e accesso ai media, i messaggi più forti che emergono dalla ricerca del Censis sono due. Il primo è che la televisione generalista rimane ancora, di gran lunga, il media di riferimento degli italiani mentre la carta stampata continua un inesorabile declino. Il secondo concerne la sempre più netta divisione in due del nostro paese, soprattutto per linee generazionali: da una parte vi sono gli onnivori mediatici, che accedono ed utilizzano una pluralità di media, affiancando alla televisione, l’uso estensivo dei nuovi media. A questo gruppo, tendenzialmente giovane e più istruito se ne contrappone un altro, fatto in prevalenza da persone sopra i 40 anni, meno scolarizzati, maggiormente dipendenti dai messaggi veicolati dai media mainstream, che utilizzano Internet meno ed in modo più dozzinale.
Il quadro complessivo che ne emerge è di un paese ancora saldamente ancorato alla modernità, ai suoi ordini gerarchici, alla divisione tra intellettuali e popolo, tra grandi mediatori della realtà e audience, che guarda, tuttavia, ad una possibile e generale transizione verso il «postmoderno». Secondo questi dati, la nostra democrazia si configura come una «democrazia del pubblico», altamente mediatizzata ma in fase di saturazione, erosa dall’ascesa di nuovi soggetti sociali che, anche attraverso l’uso dei nuovi media, pur senza abbandonare quelli tradizionali, introducono elementi di novità nella scena politica ma con limitato impatto. Oltre la troppo spesso ripetuta dicotomia tra l’ipotesi del determinismo tecnologico, per cui sarebbe la semplice innovazione tecnologica a mutare le forme della politica, e l’ipotesi del determinismo sociale, secondo la quale sarebbero invece le nuove forze ad inventare usi diversi dei media, il libro curato da Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari, Nuovi media, nuova politica? (Franco Angeli) consente di scendere più nel particolare dell’analisi.
Anche se la quasi totalità dei saggi risentono di una implicito ottimismo nelle virtù positive della Rete, cosa che porta troppo spesso a trascurare il rischio della frammentazione della democrazia e della diffusione, grazie agli stessi nuovi media, di fenomeni variamente carismatici e populisti, il risultato più interessante di queste ricerche è costituito proprio dalla decostruzione della partecipazione politica ai tempi del web 2.0. Come emerge dal saggio di Sara Bentivegna, il quadro presentato dal Censis nel suo rapporto, risulta più fosco se letto in chiave europea: dai dati presentati, risulta chiaramente che il nostro paese è scivolato agli ultimi posti in Europa per ciò che riguarda l’inclusione digitale. Si approfondisce quella divisione tra giovani istruiti, che utilizzano in modo avanzato i nuovi media ma hanno scarso impatto sulla politica, e il resto della popolazione.
In questo quadro, i protagonisti potenziali della costruzione di modelli di partecipazione on-line, sono quelli che potremmo definire i lavoratori della conoscenza in formazione. I veri nodi di fitte reti di mobilitazione, discussione e attivismo politico costruito dal basso, tanto sul terreno della politica più tradizionale quanto su quella della Life politics. Quella politica della vita che include nell’azione collettiva autorganizzata temi come la qualità della vita, il caro prezzi, l’identità personale. E qui sta uno dei principali meriti delle ricerche contenute nel volume: viene finalmente sfatato il mito per cui sarebbe la Rete a creare partecipazione politica e disintermediazione dei processi politici, quasi fosse una nuova pietra filosofale. In realtà, i dati ci dicono che la partecipazione on-line si lega sempre più alla partecipazione off-line: chi si interessa di politica è anche il protagonista e l’animatore delle iniziative in Rete.
Eppure, nel nostro paese l’uso a fini politici dei nuovi media, non soltanto è ancora quantitativamente limitato. Soprattutto è prevalentemente appannaggio dei movimenti e dunque più isomorfo alle istanze della democrazia radicale che di quella rappresentativa: sono le iniziative dal basso, al di fuori dei partiti e delle istituzioni, quelle che realizzano le forme più avanzate, dunque sociali e interattive, di partecipazione on-line. I politici di professione e le stesse organizzazioni partitiche, dopo aver subito, spesso, le conseguenza di una generale incomprensione dei rischi e delle opportunità aperte dalla «democrazia del pubblico», dominata dai mass media, non sembrano riuscire a tenere il passo delle novità apportate da Internet.
Web 2.0 vuol dire infatti interazione, discussione, socialità. Ma l’uso che ne fanno tanto i partiti quanto i singoli esponenti politici, gli eletti, si muove ancora all’interno della tradizionale logica unidirezionale: si inviano messaggi e contenuti ai propri elettori, più nell’ottica della persuasione che in quella del confronto e dell’ascolto. Più nelle fasi legate alle elezioni che in quelle della normale vita politica. Da questo punto di vista, le organizzazioni politiche sono ancora ancorate all’orizzonte della modernità e ai suoi ordini gerarchici, il cui il prototipo è il rapporto, asimmetrico, tra intellettuali (attivi) e non-intellettuali (passivi). Anche con finalità di socializzazione ai nuovi media proprio di chi svolge politica all’interno dei partiti, è il libro curato da Epifani, Jacona, Lippi e Paolillo, significativamente intitolato Manuale di comunicazione politica in Rete (Apes). Scritto con uno stile semplice, che non cade mai nel semplicismo, l’originale volume, almeno per il panorama italiano, affronta uno ad uno tutti i passaggi che possono condurre il politico delle istituzioni ad un uso davvero interattivo dei nuovi media. Partendo da un’analisi dei cambiamenti che hanno investito la comunicazione politica negli ultimi anni, il volume affronta poi l’analisi di tutti gli strumenti messi a disposizione dal web 2.0: dal tradizionale web site, al blog, ai vari tipi di social network. L’idea di fondo che traspare dal volume è che Internet non divengono mai sinonimi della politica: la degenerazione della democrazia del pubblico rappresentata dal berlusconismo, si basava proprio su questa equazione. Ma come ricordato in più parti del Manuale, l’ascesa del web 2.0 porta all’interno della politica il messaggio opposto: la comunicazione politica è efficace e funzionale per la democrazia, solo se la sorregge un processo politico reale, ancorato alla società e con dei contenuti da veicolare.
La dimensione della interattività è dunque l’elemento in grado di contaminare quella democrazia rappresentativa che rischia di essere travolta dalla propria incapacità addestrata ad aprirsi alla società e a rinunciare ad un’immagine passiva e subordinata del cittadino. E qui giungiamo al nodo cruciale che la lettura dei tre libri suggerisce: l’Italia è ancorata saldamente ad una modernità senile priva ormai di spinte propulsive perché tutta rivolta con lo sguardo verso l’alto, verso i dirigenti e poco autocritica e dinamica in basso.
In queste condizioni il web 2.0, di per sé, non salverà la nostra democrazia se una nuova generazione di italiani, di lavoratori della conoscenza e di cittadini, non deciderà di giocare la sua partita nelle forze politiche come nei movimenti. Chiudendo per sempre il periodico riproporsi delle gramsciane rivoluzione passive, di cui l’attuale governo è solo l’ultimo epifenomeno ma le cui cause profonde sono proprio da rintracciare nel culto della passività e della dipendenza dal notabile, cui ci ha condotto la sclerotizzazione della modernità.

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