Da Google a Wikipedia in sciopero. S’incrina il fronte sul copyright
Da Google a Wikipedia in sciopero. S’incrina il fronte sul copyright
NEW YORK — Non solo il black out dell’enciclopedia Wikipedia e di molti altri siti e reti sociali, da Reddit a Mozilla. Vai su Google e trovi il celebre logo multicolore coperto da una banda nera che fa da «link» con una pagina nella quale la società di Mountain View esprime il suo «no» alla legge antipirateria digitale all’esame del Congresso Usa. Vai sul sito della rivista Wired e vedi i titoli cancellati, come per una censura: autocensura di protesta, in questo caso. Oscurato anche il sito di Greenpeace, mentre le homepage di Craiglist e Mashable diventano manifesti di lotta contro il «Congresso liberticida».
L’America ha vissuto ieri il primo «sciopero della rete» dell’era di Internet in un clima un po’ irreale, vista l’impossibilità di misurare il suo successo in termini «fisici»: uno sciopero «tradizionale», in genere, sensibilizza l’opinione pubblica con massicce manifestazioni nelle piazze o con un imponente blocco di produzioni e servizi pubblici. Nell’era digitale tutto è diverso: le organizzazioni che rifiutano di accettare limiti all’operatività dei siti Internet in nome della difesa del copyright sono scesi in piazza a New York, San Francisco e Seattle, ma le loro manifestazioni sono state largamente simboliche.
La battaglia vera si è combattuta in rete, con gli utenti invitati a subissare i loro rappresentanti in Parlamento di messaggi di dissenso per le iniziative legislative che hanno adottato, e nei corridoi della Washington lobbistica. Un mondo nel quale, fino a qualche tempo fa, Hollywood e l’industria dei media (cinema, tv, musica, stampa) erano considerati quasi onnipotenti, mentre i protagonisti della Silicon Valley contavano poco. Anzi, il mondo della rete snobbava Washington e il governo.
Non è più così: prima Microsoft, poi Google, infine anche Facebook, si sono dotate di potenti strutture lobbistiche nella capitale mentre il mondo della rete ha imparato a mobilitare i suoi utenti, anche con iniziative clamorose e di dubbia correttezza: dalla saturazione dei centralini telefonici e degli indirizzi di posta elettronica del Parlamento Usa, alle sortite degli anarchici di Anonymous che cercano di spaventare i sostenitori delle norme a difesa del copyright, minacciando di assediare loro e le loro famiglie nelle loro residenze private.
Qualunque sia il giudizio sulle leggi in discussione in Parlamento e sugli strumenti usati per contrastarle, non c’è dubbio che la ribellione della Rete sta dando i suoi risultati: la Camera ha già rinviato tutto a febbraio mentre al Senato, dove una votazione è ancora in calendario per il 24 gennaio, si moltiplicano le richieste di sospensione.
L’ampia maggioranza bipartisan che fino alla settimana scorsa sosteneva la legge sta, insomma, perdendo pezzi. Il caso più clamoroso è quello di Marco Rubio, giovane senatore della Florida e astro nascente dei conservatori, considerato da molti il vice ideale nel ticket repubblicano per la Casa Bianca. Rubio ieri ha ritirato il suo appoggio alla legge contro la pirateria Internet della quale, pure, era stato un co-sponsor. Lo ha seguito a ruota da un altro senatori di peso: John Cornyn, il parlamentare del Texas responsabile per l’organizzazione della campagna elettorale per il partito repubblicano: «Prendiamo tempo e facciamo le cose per bene» ha scritto su Facebook. «A sbrigarsi troppo si rischia di sbagliare. Dobbiamo combattere i pirati ma senza danneggiare Internet e l’innovazione».
Anche alla Camera il Sopa (Stop Online Privacy Act), quasi gemello della legge in discussione al Senato, sta perdendo il sostegno di diversi deputati repubblicani. Eppure a concepire il provvedimento era stato proprio un leader conservatore: Lamar Smith, il repubblicano del Texas che presiede la Commissione Giustizia del Congresso.
La lobby di Hollywood, ovviamente, non molla. A guidarla è un ex senatore di peso come Chris Dodd, autore, due anni fa, del «Dodd Frank Act»: la riforma finanziaria con la quale un Parlamento ancora a maggioranza democratica cercò di «tagliare le unghie» a Wall Street, dopo la crisi nata dal crollo della Lehman. Il democratico Dodd ha lasciato il Senato a fine 2010 e si è subito riciclato come superlobbista delle majors del cinema, conducendo la crociata contro la pirateria e anche contro i siti che tollerano la sua circolazione.
Ma il consenso democratico alla legge antipirateria si è raffreddato dopo che la Casa Bianca ha giudicato giusto l’obiettivo ma sbagliato lo strumento legislativo. E anche la grande stampa economica si è divisa: il Wall Street Journal, dopo le sortite furibonde del suo editore, Rupert Murdoch, contro i ladri di copyright e chi li tollera, è sceso in campo a favore della legge, mentre Financial Times e Forbes giudicano troppo pericoloso un provveddimento che rischia di compromettere i processi di innovazione tecnologica.
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