L’antitorinese che all’Einaudi e al Pci preferì la fantascienza e Mondadori

Calvino insisteva a tesserarlo, lui tifò solo Juve. Vicino al Pri, non condivise l’odio per Berlusconi

Calvino insisteva a tesserarlo, lui tifò solo Juve. Vicino al Pri, non condivise l’odio per Berlusconi

Carlo Fruttero era un antitorinese. «Avreste dovuto vedere — raccontò una volta — la faccia di Giulio Einaudi, di Natalia Ginzburg, di Italo Calvino, quando annunciai che lasciavo la loro casa editrice, il tempio della cultura italiana, per andare a fare Urania, un giornaletto di fantascienza con omiciattoli verdi in copertina». Fruttero non credeva alle grandi costruzioni ideologiche o ideali del comunismo ordinovista di Gramsci e Togliatti e dell’azionismo di Gobetti. Guardava con rispetto ma anche con garbato scetticismo al lavoro di ricapitolazione politica e filosofica di Bobbio, di cui peraltro era amico. Diffidava del ruolo pedagogico della cultura. E di tutto questo sorrideva, con l’intelligente malizia con cui mise in scena ne La donna della domenica l’americanista Bonetto — «non si dice Boston ma Baaastn» —, ispirato a uno studioso peraltro importante come Claudio Gorlier ma in generale simbolo dell’intellettuale piemontese engagé, strutturato, un po’ pedante. Il contrario di lui.
Carlo Fruttero era però anche molto torinese. La sua casa, accanto alla stazione di Porta Susa, era rimasta agli anni Cinquanta: stanze in penombra, abat-jours su centrini di pizzo, una moglie quasi invisibile destinata con grande dolore del marito a non sopravvivergli, una finestra aperta sui portici del centro, una poltrona di cuoio screziato su cui Fruttero amava mimetizzare le sue rughe, aspirando una Gauloise tratta dal pacchetto con la scritta «il fumo fa male alla pelle». La sua città amava abbandonarla. Negli ultimi anni ormai si allontanava di rado dalla casa nella pineta di Castiglione della Pescaia. Ma già nel ’47 se n’era andato, a Parigi. Fu lavapiatti, cameriere, idraulico. Poi operaio in Belgio, giostraio nelle Fiandre, imbianchino a Londra.
A Parigi c’era anche l’amico della vita, Franco Lucentini; «ma lui girava su belle auto sportive, io consegnavo bottiglie di sidro in triciclo». Divisero sempre tutto a metà, il lavoro, i diritti d’autore, la collaborazione alla «Stampa», chiamati da Alberto Ronchey, che La donna della domenica l’aveva letta in bozze. Poi Lucentini si era gettato dalla tromba delle scale, come Primo Levi. Per l’ultimo bestseller, La patria bene o male, Fruttero aveva trovato un altro coautore che stimava molto, Massimo Gramellini. Ha scritto sino alla fine, ha trovato la popolarità senza cercarla, è stato un riferimento per mondi lontanissimi: autore di culto per il «Foglio» di Ferrara che ne amava la sprezzatura, ospite di grande successo a Che tempo che fa di Fazio, che ne stimolava la pietas sorridente.
Fruttero infatti con le sue vittime era ironico, non sarcastico. Con ironia raccontava i vani tentativi di Calvino di fargli prendere la tessera del Pci. «Ci incontrammo per la prima volta all’università. Mi chiese subito: “Sei comunista? No? Azionista? Neppure? Non si capacitava. Ci ritrovammo all’Einaudi. Tra una telefonata e l’altra, perché Calvino telefonava di continuo, insisteva con questa storia della tessera. Gli rispondevo che dopo aver letto Buio a mezzogiorno di Koestler non avrei mai potuto; e poi non volevo rinunciare allo sherry e alle giacche di tweed. E lui: “Ma guarda che non sono più quei tempi, ti basterà venire a qualche riunione e salire sul carro dell’Einaudi il Primo Maggio”. Era davvero così: la cellula comunista dell’Einaudi allestiva un carro allegorico per il Primo Maggio. Poi venne il ’56. E dal Pci uscì pure il mio amico Calvino».
Dal comunismo, Fruttero non fu mai tentato: «Il mio unico empito comunitario è stato il tifo per la Juventus». Sosteneva però di averlo «condonato». «Le passioni — amava dire — le condono tutte. E i comunisti erano appassionati davvero. Gente seria, anche se ingenua. Torino nel dopoguerra pareva percorsa da una follia collettiva, era un pullulare di comizi, si sentivano frasi oggi incredibili tipo “andiamo a sentire Scoccimarro a Rivoli”. Ma è sbagliato pensare i comunisti di allora come trinariciuti. Vittorini era simpaticissimo. Bollati aveva un’eleganza naturale. Antonio Giolitti era molto amico di Lucentini, erano andati a scuola insieme. Lo stesso vale per gli azionisti. Franco Venturi era uomo di grande humour, oltre che ferreo antisovietico. Bobbio era un conversatore amabile, con quel pizzico di necessaria malignità». Quando poi Nanni Moretti in piazza Navona gridò «con questi leader non vinceremo mai», Fruttero confidò di aver concepito, «di fronte a quelle urla sguaiate in romanesco», una certa simpatia per Fassino. Al radicalismo di sinistra contestava anche la lettura allarmata del fenomeno Berlusconi, da lui giudicato «un eccentrico alla Guglielmo Giannini» più che «un pericolo come Mussolini».
Il suo antifascismo era prima di tutto una scelta estetica. «I fascisti erano brutti. Neri come corvi, con quei ridicoli fez. Orribili». Non era devoto, ma neppure anticattolico. Con il compenso delle prime traduzioni per Einaudi, si unì ai pellegrini in partenza per l’anno santo del 1950 e andò a piedi da Torino a Roma: «Non per fede, per curiosità». Il suo politico di riferimento era Luigi Einaudi: «Una vita dalla parte della ragione. Contro il Duce, per l’America, il mercato, la libertà. Una sera fui suo ospite a Dogliani. Faceva un vino meraviglioso. Ed era un uomo molto simpatico. Certo più di suo figlio». A Giulio Einaudi non perdonò mai la serata in cui demolì pezzo per pezzo — il tappeto, il tavolo, lo specchio — l’arredamento che aveva scelto con cura per la propria casa in vista del matrimonio. Ma gli riconobbe sempre di «aver fatto bene il proprio mestiere di editore». Il gusto del lavoro ben fatto è un altro carattere che Fruttero rivendicò sino alla fine, spietato con se stesso prima che con i suoi contemporanei, dai politici impresentabili — dileggiati attraverso l’invenzione letteraria dell’onorevole Slucca — alla neoborghesia segnata dall’inevitabile «prevalenza del cretino».
Con l’altro antitorinese per eccellenza, Guido Ceronetti, aveva in comune il pessimismo, non una certa vena un po’ cupa. Fruttero non detestava la politica, anzi, arrivò a candidarsi, per il partito repubblicano di Ugo La Malfa, ovviamente in coppia con Lucentini; e lo canzonò a lungo perché aveva preso trenta voti più di lui. Insieme, sulla «Stampa», canzonarono Gheddafi, che chiese la testa dell’allora direttore, Arrigo Levi. «Nessuno ci chiese mai conto di nulla — amava ricordare Fruttero —. Solo, una volta, l’Avvocato ci disse: “Quanto mi siete costati, voi due”. Rispondemmo: “Però le abbiamo dato l’occasione di fare una gran bella figura”. L’Avvocato apprezzò moltissimo».

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