La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese

Schmitt, l’elogio dell’applauso. A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità  culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano.

Schmitt, l’elogio dell’applauso. A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità  culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer — affermò allora — è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron — che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco — il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti. Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler). A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile. La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo — egli dice — è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.

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