Non farsi mai strappare di mano la bandiera rossa

CINEMA A Roma 7 magnifici film di Satsuo Yamamoto, genio dimenticato
«Il cinema è prima di tutto un’arma rivoluzionaria. E la rivoluzione è possibile». Parola di Satsuo Yamamoto (1910-1983), il più marxista dei cineasti giapponesi e guida spirituale, nonché diplomatico fine, durante i bellicosi scioperi degli studi Toho nel 1948. Daisuke Ito, decano dei filmaker nipponici, disse di lui nel 1975, parlando alla critica americana Jan Mellen: «Yamamoto, rispetto a Oshima, è maturo e preparatissimo, il suo pensiero politico è solido, sebbene negli ultimi tempi si sia radicalizzato un po’ troppo»…

CINEMA A Roma 7 magnifici film di Satsuo Yamamoto, genio dimenticato
«Il cinema è prima di tutto un’arma rivoluzionaria. E la rivoluzione è possibile». Parola di Satsuo Yamamoto (1910-1983), il più marxista dei cineasti giapponesi e guida spirituale, nonché diplomatico fine, durante i bellicosi scioperi degli studi Toho nel 1948. Daisuke Ito, decano dei filmaker nipponici, disse di lui nel 1975, parlando alla critica americana Jan Mellen: «Yamamoto, rispetto a Oshima, è maturo e preparatissimo, il suo pensiero politico è solido, sebbene negli ultimi tempi si sia radicalizzato un po’ troppo»…
Nato nella prefettura di Kagoshima, espulso dall’università di Waseda, attore, allievo di Naruse e poi regista dal 1937, attratto sempre dalla cultura occidentale (Tess, Gide, Stella Dallas…), Yamamoto si smarca dallo sciovinismo durante la guerra (Vittoria alata del 1942 fu sceneggiato dall’allora marxista in guerra Akira Kurosawa), fu il perno della Shinsei Eiga (col critico Akira Iwasaki, Hideo Sekigawa, Kaneto Shindo, Tadashi Imai…) nei pochi mesi postbellici di flirt antinazi tra Usa e cineasti progressisti. Insomma Satsuo Yamamoto fu un comunista fino alla fine dei suoi giorni, e anche se espulso dai teatri di posa dagli sgherri di McCarthy, fu autore, spesso di successo, di oltre 50 lungometraggi, molti dei quali firmati Toho, Daiei, Nikkatsu, e altri indipendenti. Opere come Guerra e pace (1947) o Quartiere senza sole (1953), Zona vuota (1952) o Il tifone n.13 (1957) centrarono perfettamente il genere (film d’azione, di fantasmi, drammi di denuncia, melodrammi, chambara, «cappa e spada»…) deviandone il baricentro verso il femminismo e raccontarono, con atipici slittamenti narrativi e capovolgimenti psicologici sublimi, gli orrori, i sadismi e gli effetti boomerang di militarismo, feudalesimo e capitalismo (dagli anni 20 al Vietnam); lo sfruttamento bestiale nei campi e in fabbrica; la violenza inarrestabile e necessaria del tumulto proletario; la tecnica «magica» di combattimento dei black block del passato (i ninja del XVI secolo, «loro ti vedono, ma tu non li vedi»), 60 anni di scandali politici nel partito liberal-democratico, al centro come alla periferia, l’insorgenza delle nuove generazioni indocili ai vecchi cari valori nazionali, la corruzione negli ospedali e il rampantismo ammorbante…
A Sastuo Yamamoto l’Istituto giapponese di cultura di Roma (via Gramsci 74) e la Japan Foundation fino al 31 gennaio (con proiezioni ogni martedì e giovedì alle ore 19) rendono omaggio proiettando 7 suoi film (in 35mm, sottotitoli inglesi). Una retrospettiva, tardiva ma rivoluzionario, aperta martedì scorso dal capolavoro di Yamamoto, La ballata del carretto («Niguruma No Uta», 1959), una sorta di Novecento nipponico, che copre i 5 decenni che vanno dalla fine dell’era Meiji agli effetti devastanti della bomba atomica ben dopo l’esplosione; dalla guerra russo-giapponese alla Corea; dalle mille privazioni nelle campagne allo sfruttamento «puro» in fabbrica. Ed è focalizzato, nell’entroterra di Hiroshima, sulla tremenda vita di Seki, contadina ostinata, e sul suo infelice e fertile matrimonio con un carrettiere che ama (rudemente riamata, ma a modo suo) e con il quale dividerà una durissima vita grama (e un’altra moglie), mentre il paese cambia, dal carretto spinto a mano si passa al cavallo e al camion, dal feudo alla riforma agraria, ma l’avidità di profitto dei padroni non fa che crescere, cambiando solo tavolo di gioco. Il film, prodotto da oltre 3 milioni di contadine organizzate dal sindacato, si avvale di una sceneggiatura di Yoshikata Yoda, commuovente quando si decostruiscono gli stereotipi e o «tipi» del realismo proletario e politicamente sorprendente, soprattutto nelle scene di entusiastica e acritica adesione alla guerra patriottica (forse per coriaceo anti-americanismo?).
Il cineasta (da non confondere con Kajiro Yamamoto, 10 anni più anziano) è infatti ancora semisconosciuto in Europa. E ci voleva proprio il primo governo non conservatore a Tokyo (atteso dal 1945) per risarcire finalmente, e nel mondo, questo Biberman o Pudovkin nipponico, simbolo del cinema d’illuminazione democratica. Vittima della caccia alle streghe (rigogliosa anche in Giappone) con l’amico documentarista Kamei Fumio e tanti altri, Yamamoto S. fu rimosso via via dalla storia culturale del paese perché rappresentava, oltretutto con fraseggi mai schematici né manichei, la tendenza «realismo socialista», tra lo sbeffeggiare ironico della critica «impressionista» a la page (si legga il saggio di Hataro Tetsuno pubblicato nel 1984 dalla Mostra di Pesaro) e le accurate e passionali critiche della nouvelle vague che lavorava, come Oshima, alla costruzione di una sinistra nuova, più-che-sovietica, ma che ereditò da Yamamoto la tecnica di sgretolamento della doppia faccia nazionale, separando esterno formale da interno desiderante. Riscoperto nel 1963 dalla cineteca di Parigi, Roma presenta ora altri capolavori: il dittico ninja (Una banda di assassini e Il ritorno di una banda di assassini, ’63 e ’64), The tycoon, ’64; Torre d’avorio, 66; La lanterna delle peonie, ’68 e Eclisse solare, ’75.

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