Lettera dalle ombre nere di Haiti

La Danticat denuncia il Male attraverso la storia di un torturatore

La Danticat denuncia il Male attraverso la storia di un torturatore Come si racconta l’orrore in forma di romanzo? O meglio: come si organizza una narrazione intorno ad argomenti come la tortura, la violenza carnale, l’omicidio di innocenti e il suicidio di disperati, in modo sincero ma anche ragionevolmente seduttivo?

Con la grazia e la distanza, è la risposta di Edwidge Danticat, scrittrice haitiano-americana eccezionalmente schiva, sebbene da anni ai vertici di tutte le classifiche letterarie più alla moda — una dei «venti migliori giovani scrittori americani» secondo la rivista Granta nel 1996; una dei venti protagonisti della «fiction americana del futuro» secondo il «New Yorker» nel 1999; addirittura una dei «trenta artisti al di sotto dei trent’anni che cambieranno la cultura dei prossimi trent’anni» secondo uno slogan del «New York Times», all’epoca in cui la Danticat esordì con Breath, Eyes, Memory (1994), guadagnandosi un credito di fiducia presso la critica più severa.
Oggi Edwidge Danticat ha quarantadue anni, un’aria dolce, uno sguardo triste, due bambine piccole, una vita fuori dai circoli letterari a Miami, e nove libri al suo attivo che testimoniano quanto sia difficile per un Paese come Haiti uscire dal cerchio di violenza delle sue passate dittature. È il terreno che esplora dall’altro lato dell’isola di Hispaniola — cioè nella Repubblica Dominicana — il premio Pulitzer Junot Diaz. Ma là dove la lingua americana di Diaz è sfacciata e immaginifica e sporcata dalla latinità, quella di Edwidge Danticat è composta, lirica e sobriamente emotiva. «Io non ho il potere di correggere la realtà», dice. «Posso solo documentare i fatti».
I fatti, nel Profumo della rugiada all’alba, la sua opera di narrativa più nota (in uscita la prossima settimana da Piemme, pp. 224, 16,50) ruotano intorno alla storia di un torturatore haitiano che si è rifatto una vita a Brooklyn.

Quest’uomo è stato uno dei Tontons Macoutes, gli aguzzini del tiranno «Papa Doc» Duvalier, che prima dell’alba irrompevano nelle case della povera gente e rapivano, torturavano, ammazzavano negli anni Sessanta. È lui il protagonista diretto e indiretto di questi nove racconti che insieme formano un romanzo, e che ce lo mostrano attraverso gli occhi di diversi osservatori: della donna che lo ha sposato per strapparlo al Male; di alcune sue ex vittime che credono di riconoscerlo nelle strade di Brooklyn; della figlia scultrice che quel padre dannato considera il suo angelo custode. Quando lui le confessa il suo passato, dicendo che è stato «cacciatore, non preda», la ragazza trova improvvisamente risposta a tante domande: «Mi spiegherà perché lui e mia madre non hanno amici, o perché nessuno li è mai venuti a trovare a casa, perché non parlano con nessun parente a Haiti o altrove; o perché non ci sono mai ritornati…?».
Domande, in fondo, comuni ad altri immigrati, che rendono Il profumo della rugiada all’alba anche e forse soprattutto un romanzo d’immigrazione. Un romanzo culturalmente americano, dunque, che riflette l’esperienza della sua autrice, il cui padre l’ha lasciata a un fratello a Port-au-Prince quando lei aveva due anni, seguito dalla madre due anni dopo, e che ha potuto ricongiungersi ai genitori a New York soltanto all’età di dodici anni, cioè nel 1981: «Un momento difficile per essere haitiani negli Stati Uniti. Da un lato c’erano i cadaveri dei boat people che arrivavano sulle spiagge della Florida; dall’altro eravamo creduti i portatori originari dell’Aids». Ma a Brooklyn la sensazione di essere diversi si fermava qui: «Perché mi resi conto subito che eravamo come tutti gli altri immigrati: disposti a lavorare di più e a guadagnare di meno e a rinunciare alle coperture sociali. Vivevamo nel terrore di quanto una malattia grave sarebbe potuta costare alla nostra famiglia».
Intanto, mentre ad Haiti le giunte militari si alternano — dopo «Papa Doc», suo figlio «Baby Doc» viene cacciato nell’86 e l’ex prete Jean-Bertrand Aristide sarà eletto ed esiliato a più riprese negli anni Novanta — l’ottuagenario zio che ha cresciuto Edwidge è costretto a fuggire a Miami, dove morirà in una cella dell’Immigration Police in attesa di asilo politico; una cugina si trova in mezzo a una sparatoria tra bande rivali e muore di paura a Port-au-Prince; un cugino rimane sotto le macerie del terremoto di due anni fa che uccide 300 mila persone.
«Ora il futuro di Haiti si gioca sul business della ricostruzione dopo il terremoto», dice la scrittrice, che è impegnata su molti fronti per aiutare i suoi connazionali. «Col forte rischio che, pur di salire sul carro del business, la gente accetti paghe da fame e condizioni di lavoro inumane. Avranno diritto di parola i lavoratori disposti a tutto per un lavoro? Sarà permesso loro di organizzarsi in sindacati?». Lo dice con la lucidità della rabbia repressa. Sapendo che, in fondo, la sola cosa che può fare lei per aiutare veramente, è continuare a scrivere.

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