Cristina Campo

«Il mio cuore sembra una talpa che scava ma la nostalgia mi ruba i colori della vita»

«Il mio cuore sembra una talpa che scava ma la nostalgia mi ruba i colori della vita»

Se ripenso dopo tanti anni a Vittoria Guerrini, che scelse di portare il nome di Cristina Campo, non ricordo un capolavoro come Gli imperdonabili, o le meravigliose Lettere a Mita, ma una voce. Non credo di aver mai ascoltato una conversazione così perfetta. Aveva un garbo mondano, una sprezzatura squisita, una grazia inafferrabile: come le sue antenate, le dame toscane del quindicesimo secolo, che ordinavano autoritratti e ritratti e paesaggi e scene sacre al Botticelli o a Filippino Lippi o a Giovanni Bellini. Amava sorridere, scherzare, giocare con le parole, divagare: come diceva il suo amico Enrique de Rivas, la sua voce di cristallo era «come acqua allegra». Qualche volta, con parole rapidissime e sottili, disegnava ritratti di un’eleganza perfida: e poi, come se fosse pentita (ma non si pentiva mai), la voce si approfondiva, obbedendo a quella che Pierre de Bérulle chiamava «la fine pointe de l’âme». Una cosa ricordo soprattutto: la nitidezza sovrannaturale della sua voce; la luce bianca e tagliente di Mino da Fiesole, di Desiderio da Settignano e del Laurana.
Sebbene fosse nata a Bologna, il suo cuore non avrebbe mai saputo abbandonare Firenze. Non poteva rinunciare ad una sola pietra della città. La mattina del 4 agosto 1944, dopo le grandi esplosioni della notte, che avevano distrutto le case e i ponti sull’Arno, una ragazza esile e bruna sui vent’anni aprì la porta di casa, e domandò se era stato distrutto anche il Ponte a Santa Trinita. Le dissero di sì. Allora la ragazza chiuse gli occhi, per trattenere la commozione: ma presto li riaprì tra lacrime e singhiozzi. Le donne, che col permesso della ronda tedesca, erano uscite a prendere l’acqua, le passavano accanto chiedendole cosa avesse: se a causa delle esplosioni notturne, un suo parente o un suo amico era morto o ferito. La ragazza scosse la testa: rispose soltanto che il Ponte a Santa Trinita era stato distrutto e lei non l’avrebbe mai più visto. Quell’esile ragazza ventenne era Vittoria Guerrini. A Firenze rimase fino al 1956, quando aveva trentatré anni. Ma anche allora, durante gli anni di presenza, fu divorata dalla nostalgia. Rimpiangeva tutta la città: «Pura, nettissima, di un azzurro quasi ghiacciato»: la rimpiangeva come se fosse stata lasciata sola; rivedeva le sue strade, i vicoli, le piazze, i giardini, e gli scrittori, soprattutto i poeti dello Stilnovo e il Galilei. Poi la nostalgia si ingigantì, la torturò. Le suscitò l’impressione di non vivere più nel modo reale né in quello fantastico.
Firenze fu, soprattutto, la giovinezza: la giovinezza che non poteva morire, e che pure era minacciata ogni momento, insicura, labile, gracile. La maturità tollerava il tono medio, e persino quello mediocre. Ma la giovinezza pretendeva soltanto la venerazione, l’adorazione, la perfezione dei riti e dei libri, che erano anch’essi, a loro modo, dei riti: Hölderlin, la Dickinson, Hofmannsthal, T.E. Lawrence, Simone Weil, Pasternak, dai quali si sentiva protetta, come se le loro grandi ali non dimenticassero nemmeno una lettera delle pagine che, lentamente e faticosamente, scriveva.
Lì, nel cuore di Firenze, si guardava intorno: le strade, le persone, le ombre, con un’attenzione che non avrebbe potuto essere più meticolosa e scrupolosa. Ma la beatitudine dello sguardo non le bastava. Si protendeva ardentemente in avanti: cercava di essere, come diceva di Maria Zambrano (Se tu fossi qui, Lettere a Maria Zambrano, 1961-1975, Archinto, pp. 84, 14,50), un puro tramite, perché in lei non c’era niente che subito non donasse agli altri; tentava, quasi pretendeva di essere felice, sebbene sapesse che non esisteva niente di più terribile ed estenuante della felicità. Non poteva scaldarsi a lungo presso lo stesso fuoco: vagabondava; ma poi trasformava il suo vagabondaggio in un dovere di tutti i giorni, in una disciplina accettata, in un sacrificio doloroso. Infine, si ritirava e scavava in se stessa, cercando il proprio segreto, senza portarlo interamente alla luce. Cercava, soprattutto, l’enigma.
Tra le creature viventi, amava soprattutto i gatti e gli amici. I gatti erano quattro: nella poltrona vicino al suo letto, si stendeva un grosso, giovane gatto innocente; e nella stanzetta sopra la cucina, abbracciate, «tre piccole fate dai più delicati toni di grigio». Gli amici erano innumerevoli; e ancora oggi appaiono alla luce lettere, frammenti di lettere, tenerezze, ricordi di tenerezze, amicizie che dopo quaranta o cinquanta anni non si possono sradicare. Cercava nei suoi amici fedeltà, freschezza, meraviglia, sorpresa: una cerchia strettissima di complicità, che ricordasse un poco ai suoi occhi le cerchia degli antichi amici dello Stilnovo. Voleva sapere tutto di loro — che mobili c’erano nella stanza, che alberi si riflettevano nei vetri. Nel 1999, Margherita Pieracci Harwell pubblicò le Lettere a Mita (Adelphi): un capolavoro della letteratura italiana del secolo scorso. In questi giorni, la stessa Pieracci raccoglie e commenta Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino (Adelphi, pp. 278, 24). Le Lettere a Mita sono più intense perché Margherita Pieracci (Mita) possedeva il dono supremo dell’amicizia: sapere far parlare gli amici, invitarli a scrivere quello che essi non sanno o non immaginano, molto meglio di quanto sappiamo parlare noi stessi.
Appena fu esiliata e si esiliò a Roma, i toni delle lettere di Cristina Campo sembrarono più foschi. «Intanto se ne va il tempo, e il lavoro si accumula (dentro) e questa incredibile primavera romana — cupa, splendente come un fiotto di sangue, e pure così tenera sotto il suo cielo oscuro — mi ruberà i suoi colori e la sua febbre strana…». Roma diventò, rapidamente, il regno della malattia. Aveva sempre avuto una gravissima malformazione cardiaca, che le aveva impedito di frequentare le scuole, ed ora, a Roma, ogni sorta di ossessioni psicologiche, religiose ed amorose la torturarono e la sfibrarono.
«Ho il cervello stanchissimo, e in certi momenti non è altro che malattia». «Ho sempre un po’ di febbre e sono stanchissima. Questo è il collasso dopo sei mesi di tensione». «Sono terribilmente angosciata in una vaga atmosfera di incubo». «Sembra che quest’anno, per misteriose ragioni, io debba stare sdraiata due giorni su quattro; e in quelle giornate il mio cuore sembra una talpa che scava. Sto immobile sul letto e lo lascio scavare». «Non posso più scrivere i biglietti da visita senza uno sforzo grandissimo che mi estenua». «Esco da un’ennesima notte oscura: febbre, mal di capo fin quasi alla cecità e una tosse che pare scavare il cuore». «I giorni sono lunghi, senza poter scrivere: soprattutto sono lunghe le notti, solitarie, nelle quali si teme il sonno come un silenzio che inghiotte».
Gli anni della malattia furono anche gli anni della crisi mistica, e dei testi più belli che Cristina Campo abbia mai scritto. Dopo la morte del padre e della madre — strazio per lei indicibile — andò ad abitare a piazza Sant’Anselmo, sull’Aventino. Dapprima nella stanza di un piccolo albergo, dove tutto sapeva di Emily Dickinson; e poi in un incantevole appartamento in fondo alla piazza, sempre sotto la protezione dell’immensa abbazia, «L’abbazia — scriveva nell’agosto 1965 a Maria Zambrano — è quasi disabitata: non c’è Musica né Liturgia: solo pochi conversi e i sacerdoti rimangono. Ma la Messa del mattino, col suo sepolcrale silenzio, la Compieta al tramonto, il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte — questa esistenza, infine, quasi di oblati in ritiro — è puro olio soave sull’anima e il corpo».
Nell’ultimo periodo della vita, Cristina Campo ebbe l’impressione che Dio l’avesse completamente abbandonata. Dio si occupava di altri: chissà di chi — ma mai di lei. Temeva di non essere degna. Temeva di smarrire quell’olio soave che l’aveva incantata. Le chiavi del cielo continuavano ad aprire porte inattese — ma dietro la porta non c’era niente o nessuno che le parlasse. «Ormai è tardi», scriveva.
La mattina dell’11 gennaio 1977, alle cinque, mi telefonò Elémire Zolla. «Vittoria è morta dieci minuti fa», mi disse. Era ancora buio. Mia moglie ed io corremmo in macchina all’Aventino. Vittoria era distesa sul letto: il viso era trasformato, deformato, stravolto; non avevo mai visto un essere umano così violentemente e ferocemente aggredito dalla morte, che l’aveva colpita dove era più indifesa: nel cuore. Tutto era stato inutile: la fede, la grazia, l’attenzione, l’amore, la discrezione, la vocazione, la tenacia, l’ardore, la dolcezza, persino la crudeltà — tutto quello che aveva fatto di lei una creatura incomparabile, era stato spazzato via con un gesto. Per un momento non riuscii a pensare ad altro. Poi nella memoria risorse il lieve splendore della voce di Vittoria, la grazia della scrittura di Cristina, e il verso incessante di Dylan Thomas: «E la morte non avrà più dominio».

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