Guccini racconta come “parole e note” siano legate alla storia italiana L’occasione è l’uscita di un libro che raccoglie 150 anni di opere celebri. Ai primi Sanremo un piccolo pubblico si riuniva e poi commentava questo o quel brano. Possono essere leggere o profonde, amate o odiate durare un’estate o interi secoli
Guccini racconta come “parole e note” siano legate alla storia italiana L’occasione è l’uscita di un libro che raccoglie 150 anni di opere celebri. Ai primi Sanremo un piccolo pubblico si riuniva e poi commentava questo o quel brano. Possono essere leggere o profonde, amate o odiate durare un’estate o interi secoli
Le canzoni sono una cosa incredibile, viaggiano per il mondo a una velocità non dico della luce, ma con speditezza davvero misteriosa e difficilmente calcolabile e misurabile. Possono essere leggere o profonde, amate o odiate, durare un´estate o durare secoli. Spesso hanno un autore a monte, conosciuto e ricordato, ma non sempre. A volte poi quell´autore scompare, ma la canzone rimane. È una linea melodica, o una frase, che ti entra nella testa e non ti abbandona, e che rinasce e si ripresenta anche anni dopo rispetto a quando è nata, e la ricanti, la moduli, o semplicemente la fischietti.
La canzone è spesso una piccola magia. Mia nonna paterna, casalinga e come molte montanare d´allora, all´occorrenza anche contadina, possedeva un vasto repertorio di canti che andava da ballate popolari tipo “La pesca dell´anello” a brani di cantastorie toscani come la “Povera Giulia”, ad esempio, e così via. Un giorno (facevo allora ricerche sul canto popolare) mi disse: “Te l´ho cantata questa?” e iniziò, con la sua altissima voce tutta di testa che si distingueva in chiesa quando massacravano il latino liturgico: “Tripoli, bel suol d´amore/ti giunga dolce questa mia canzon./ Sventoli il tricolore/Sulle tue torri al rombo del cannon/Naviga o corazzata…”. Chiesi: “E questa dove l´hai imparata?” “La sonava la banda dei carabinieri, in Pàvana. Io allora abitavo a casa di Ciccia e là li ascoltavo sonare…”, mi rispose. C´è da dire che le due località sono di fronte, ma in linea d´aria saranno due chilometri: a piedi, bisogna scender giù per la mulattiera, passare il ponte sul fiume, fare un pezzetto di strada, imboccare l´altra mulattiera in salita, attraversare la statale e, solo dopo un altro pezzo di mulattiera, si arriva alla piazzetta davanti alla Chiesa dove, probabilmente, era piazzata la banda. Sì, ma la banda la suonava soltanto, la canzone: e le parole? Perché allora non c´era la radio, ancora da inventare, e in casa di mia nonna, ai tempi di “Tripoli”, sicuramente non c´era nemmeno la luce elettrica. Allora immagino un viaggio al mercato di Porretta, un sabato mattina, e un cantastorie che cantava la canzone e vendeva il “foglio volante” con su scritte le parole, imparate subito a memoria. (…)
Anni fa, camminando per i boschi dalle mie parti, capitai, dopo un´ora di mulattiera, in un gruppetto di case in mezzo a un castagneto, Pastoraio.
Il borghetto era abbandonato, gli abitanti emigrati dopo la guerra in Francia o in Corsica. Un paio di case erano semicrollate, le altre con le finestre spalancate e le porte divelte. Entrai e trovai abbandonato per terra un grosso quaderno dalla copertina rossa, di fabbricazione francese. Era una specie di diario ed era appartenuto ad una ragazza che, assieme a pensieri, inizi di lettere ad amiche, un quadrifoglio, aveva raccolto e trascritto testi di canzoni in voga nel dopoguerra. Ma dove le aveva sentite, a Pastoraio, senza luce elettrica, a un´ora e più di strada dal più vicino centro abitato? Forse era scesa una domenica per il ballo? Ma come aveva fatto a ricordarsi tutte le parole?
Poi, con l´avvento quasi generale della radio (“Correte, bambine, canta Luciano Tajoli!” sentii gridare da alcune lavoranti di un piccolo laboratorio di maglieria a delle sorelle che vi abitavano di fronte; le ragazze si erano affacciate di corsa sulla soglia mentre le magliaie avevano alzato il volume della radio) la canzone, anche se non più per via orale, si è diffusa maggiormente. Ai primi Festival di Sanremo trasmessi dalla televisione, le famiglie più qualche vicino di casa si radunavano davanti all´apparecchio dei pochi che possedevano la scatola magica; nei bar, che avevano una saletta apposta, un piccolo pubblico si riuniva e commentava e nei giorni successivi la gente in giro commentava questa o quella canzone. Perché la canzone, bella o brutta che sia, allegra o triste, frivola o con testo di valore, ha una forza misteriosa che, attraverso canali il più delle volte sconosciuti, gira il mondo, passa di bocca in bocca, sparisce e rinasce. Cantavano le casalinghe mentre sbrigavano le faccende di casa; cantavano i garzoni dei negozi mentre, su biciclette sgangherate, portavano a termine le consegne storpiando quello che cantavano; si cantava nelle osterie quando, con voci roche di vino e fumo, gli inurbati ripetevano i frammenti canori di quella che era stata la loro civiltà contadina, il ricordo di quello che si intonava durante il lavoro dei campi.
La canzone non sta ferma, si muove e viaggia. Per quali curiose strade il canto inglese “Lord Randall” è arrivato in Italia ed è stato raccolto da Costantino Nigra sotto il titolo “Il testamento dell´avvelenato”? La musica è diversa, ma le due storie identiche. Com´è giunta fino a qui, su quali gambe ha camminato, quali orecchie l´hanno ascoltata e quali bocche l´hanno modulata, mutandola a poco a poco, via a via?
Ognuno di noi, chi più, chi meno, ha la propria vita intrecciata a quella di alcune canzoni. Basta andare indietro nella memoria e si scopriranno un momento, un giorno, una persona legati a noi da un canto. E bene ha fatto il compilatore e curatore di questa grande antologia, Leonardo Colombati, rappresentando 150 anni di canzone italiana, con le sue pagine belle o brutte, ma pagine, tutte da ricordare in qualche modo.
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