Gaetano Salvemini non abbandonò mai l’obiettivo di cancellare la miseria con un’azione riformatrice
Gaetano Salvemini non abbandonò mai l’obiettivo di cancellare la miseria con un’azione riformatrice
Nel 1954, tre anni prima della fine, Gaetano Salvemini si provò a incastonare tutta la sua opera precedente in un breve giro di frasi. E fu allora che l’ideale socialista, da molti dato per scomparso, ricomparve, e più caro ancora perché accompagnato dal sentimento di non averlo mai perduto. «Sono — disse — un socialista democratico all’antica».
«Socialismo» (e peggio se «antico») è però di quelle parole fosforescenti che spiegano tutto e non dicono niente. Per cui bisogna innanzitutto fermare quell’unico tra i mille possibili socialismi che Salvemini carezzava (contropelo) dei suoi favori. Ora, per andare subito al centro delle cose, diremo così: il socialismo di Salvemini, ancorché adattato alle condizioni italiane, era lo stesso socialismo affermatosi con la socialdemocrazia della Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Da lì gli venivano molti insegnamenti. Gli veniva, intanto, l’opzione riformistica e quindi l’idea che il riscatto degli umili dovesse rifluire nell’alveo di una democrazia compiuta e moderna, che per essere moderna e compiuta doveva di necessità estendere il diritto di voto a tutti, ma proprio a tutti, compresi evidentemente gli analfabeti. Donde la campagna per il suffragio universale che lo urtò ferocissimamente con molti dei suoi stessi compagni di partito, troppo uncinati alle loro piccole comodità per lasciare che pure i «trogloditi» del Mezzogiorno decidessero dei verdetti elettorali.
Sempre l’impostazione «secondointernazionalistica» assisteva Salvemini in una convinzione che gli si era fitta in mente assai presto e che lo accompagnò per sempre; prima, durante e dopo la sua militanza nel Partito socialista; lo confortava cioè nella convinzione che i ritrovati democratici fossero altrettanti strumenti asettici, neutrali, che proprio perché neutrali riuscivano buoni per qualunque fine, non ultimo l’abolizione del mercato e della proprietà privata: «Non vi è alcuna necessità — scriveva nel 1937 — di supporre che la democrazia politica sia logicamente congiunta con l’iniziativa privata».
Ancora nel 1949, nell’introduzione a L’età giolittiana di William Salomone, ancora lì Salvemini martellava sul punto: «Si può concepire un regime democratico… anche senza la libera concorrenza economica». Ma dalla sapienza socialdemocratica egli derivava soprattutto una certa concezione della storia, e precisamente quella concezione secondo cui alle vicende umane presiede la legge della continuità, per cui il socialismo non sarebbe stato, non avrebbe potuto essere, il conato di una volontà rivoluzionaria, intesa la rivoluzione come l’atto (uno solo) risolutivo e conclusivo che tronca di netto col mondo precedente: socialismo sì, come precisava Salvemini nel 1944, ma socialismo che si produce per accumulo di riforme progressive. Rivolgendosi all’esecutivo di un partito che si voleva «rivoluzionario», Salvemini in quell’occasione proseguiva così: «Voi intendete lavorare a un rinnovamento sociale totale, cioè all’abolizione del regime capitalista. Nello stesso tempo, voi riconoscete che la lotta per quel rinnovamento deve essere condotta da uomini liberi col metodo della libertà». Tanto posto, veniva all’obiezione: «Io non vedo perché la politica diretta a promuovere una trasformazione totale attraverso un processo graduale debba essere chiamata “rivoluzionaria”… Voi non avete nessun bisogno di chiamarvi rivoluzionari. Dovrebbe bastare di chiamarsi “socialisti”».
Con il che ritorna l’antico, l’antica idea che gli fu diletta fin dalla giovinezza, l’idea cioè che nessun obiettivo fosse interdetto ai socialisti purché conseguito gradualmente e col metodo della democrazia. Ritorna l’antico e rincula il moderno, dove all’opposto si dà per acquisito che il socialismo, quando voglia rimanere democratico, può proporsi alcune finalità, non altre; che tra queste finalità inconciliabili con la democrazia c’è proprio il «rinnovamento sociale totale». Quando invece, sotto il fungo del vecchio, spunta il nuovo, come cambia colore il socialismo di Salvemini! Da questo punto di vista fa testo una liberissima lettera a una amica torinese dove egli si confida, e confidandosi procura al socialismo quel particolare fermento che è proprio il respiro delle cose vive. «Io — scriveva — ho raggiunto gli 82 anni; da sessant’anni sento parlare di rivoluzione; ma una rivoluzione non l’ho mai vista. Invece ho visto una evoluzione: lenta, frammentaria, continuamente interrotta, eppure visibile. C’è oggi in Italia meno miseria che nel 1890, quando io avevo diciassette anni. Queste conquiste sono state l’opera di persone come Lei e — se mi consente di aggiungere — come me, che abbiamo sofferto all’idea di coloro che stavano peggio di noi. Nel 1947, quando tornai dall’America dopo 22 anni di assenza, mi misi a conversare con una donna di servizio, intelligentissima e squisitamente buona. Lei mi disse che era stata sempre socialista e aveva sessant’anni. Le domandai: “Perché sei stata sempre socialista?”. Mi rispose: “Perché penso che ci deve essere un po’ di bene per tutti”. Questo, cara amica, è il socialismo».
Dal «rinnovamento totale» a un «po’ di bene per tutti»: la distanza è tanta! Ecco: dall’inizio alla fine Salvemini fu conteso da entrambe le aspirazioni e a tutte e due disse di sì. Sicché, volendo tornare da dove eravamo partiti, diremo che egli aveva ragione quando a tarda età ci tenne a dirsi «socialista riformista»: questa è la verità, la verità vera. Con una postilla: che sotto la copertura di quell’unico lemma — socialismo, appunto — egli riuniva in unità due movimenti, l’antico e il moderno, che non fanno centro l’uno nell’altro. E allora: socialista Salvemini? Senz’altro. E fino all’ultimo. Ma un socialista un po’ particolare: antico e moderno insieme. Un socialista percorso da sensibilità moderna e un moderno che aveva ancora attivo il ricordo dell’antico. Questo fu Salvemini. Noi non sappiamo se il moderno fosse più grande dell’antico. Certo ce lo sentiamo più vicino.
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