Un fondo di Tommaso Di Francesco e la bella intervista di Ida Dominijanni a Christian Marazzi (il manifesto, 3 dicembre) contribuiscono, da prospettive diverse ma convergenti, a chiarire un po’ le idee sull’intreccio di crisi e guerra a cui non si presta sempre la dovuta attenzione.
Un fondo di Tommaso Di Francesco e la bella intervista di Ida Dominijanni a Christian Marazzi (il manifesto, 3 dicembre) contribuiscono, da prospettive diverse ma convergenti, a chiarire un po’ le idee sull’intreccio di crisi e guerra a cui non si presta sempre la dovuta attenzione. La società degli individui sta diventando, in sostanza, una società di debitori che pagano non solo per i profitti delle banche di investimento e per alimentare la bolla finanziaria.
Ma anche per tenere in piedi un apparato militare-industriale il quale si prepara a nuove guerre (direi che Siria e Iran sono le più gettonate in cancellerie e think tank) e quindi a nuovi indebitamenti che ricadranno su lavoratori, pensionati ecc. Circa un anno fa, Innocenzo Cipolletta (sì, l’uomo di Confindustria) ha pubblicato un interessante libretto da Laterza (Banchieri, politici e militari) in cui sono analizzati i cicli guerra-debiti sovrani. Solo per fare un esempio, le due guerre in Afghanistan e Iraq hanno provocato negli Usa uno straordinario trasferimento di risorse dal settore pubblico a quello privato che ha contribuito a innescare la crisi del 2008 e quindi quella attuale, in cui l’Italia fa la parte, più del capro espiatorio, dello sparring partner…
Una concatenazione di cause ed effetti nota da sempre, si dirà. Il capitale ha ciclicamente bisogno di guerre per rinnovarsi, come sappiamo da Schumpeter. Ma quello che è meno evidente è come questo corrisponda oggi a una trasformazione sensazionale del potere globale, o occidentale che dir si voglia. La finzione degli esecutivi eletti a furor di popolo è oggi ridotta a una mera variabile delle strategie finanziarie e militari perseguite dal sistema bancario internazionale e dalla Nato. Consideriamo il governo Monti. È singolare come sia soprattutto la destra, e non solo italiana, (da Giuliano Ferrara al Times e ai neocon Usa) a parlare di un vero e proprio colpo di stato che avrebbe detronizzato Berlusconi. È la nostalgia per un plebiscitarismo di destra (il “capo” eletto dai cittadini) con cui si esprime quel liberalismo autoritario che sta molto caro agli orfani di Bush e del cavaliere. Ma la sinistra? Che lezioni sta traendo dall’insediamento al governo di un direttorio in cui siedono fianco a fianco tecnocrati, banchieri e militari?
Per esempio, come non riflettere su un militare ministro della Difesa per la prima volta, mi pare, nella storia della repubblica? Ogni paese sull’orlo del fallimento risolve a modo suo la questione del virtuale disfacimento sotto la crisi. Papandreou, dopo l’annuncio del referendum e prima dell’avvento di Papadimos, ha licenziato i vertici delle forze armate. Da noi, dove non sono pensabili (per il momento) mal di pancia golpisti o gravi sommovimenti di piazza, è bastato insediare, con il beneplacito attivo del presidente della repubblica, un militare organico alla Nato, il quale ha evidentemente il compito di rassicurare i vertici militari americani ed europei sull’adesione italiana alla strategia occidentale, con relativi pian di spesa per l’acquisto di aerei da combattimento (14 miliardi in dieci anni…).
C’è chi, come Sofri, gongola all’idea che l’Italia ceda un po’ di sovranità per realizzare quella giustizia internazionale che gli sta tanto a cuore, insomma per stanare i cattivoni che dovunque violano i diritti umani. Più realisticamente, Sergio Romano concepisce la dissoluzione dell’autonomia dei governi dei paesi deboli come necessario prezzo da pagare per restare nel club dei ricchi. Io mi limito a osservare che, in questa prospettiva, ogni possibilità di cambiamento svanisce. Il potere non si incarna più in personaggi facilmente esecrabili perché visibili (come il miliardario populista e reazionario Berlusconi), ma in un anonimo sistema di comitati d’affari che nessuno ha eletto e che rende conto solo a se stesso o ai suoi alleati globali. La guerra di Libia ha mostrato perfettamente come tale sistema sia in grado di sbarazzarsi in poco tempo di ex alleati ingombranti come Gheddafi, con la giustificazione della protezione dei civili o altre favole umanitarie.
Ma come contrastare una “governamentalità” globale così pervasiva e capace di ristrutturazioni tanto veloci, come quella che stiamo subendo in Italia? La difesa dei beni comuni o il “comune” di cui parla anche Marazzi è una risposta umana e sociale suggestiva, ma che lascia al sistema di potere globale sempre l’ultima parola. Oggi, pensionati e lavoratori dipendenti sono chiamati a pagare le ultime quattro o cinque guerre occidentali. Ma chi pagherà per quelle che si annunciano? Giurerei che nel giro di pochi mesi, con la depressione dei consumi e dell’economia provocata dalla manovra Monti, saranno necessarie nuove manovre, nuove strette sul potere d’acquisto, nuovi tagli ecc. (magari da affidare, nel 2013, non più al direttorio apparentemente apolitico d’oggi, ma a un altro governo di salvezza nazionale “liberamente” eletto).
Nessuno ha ovviamente le ricette in tasca per opporsi a un sistema che di liberale o democratico non mantiene nemmeno la facciata. Ma inviterei chiunque parla di necessità di «baciare il rospo Monti» (o domani quello Bersani o Casini) a riflettere sul fatto che così si baciano i rospi bancari e militari che ci comandano. Ma, se non altro, questa crisi ci mostra con chiarezza cristallina dove vanno i soldi che ci stanno sfilando dalle tasche e il tempo della vita che ci stanno togliendo. Nelle tasche dei mercanti di morte e di quelli che li finanziano.
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