Parri tra guerra e democrazia

Dal Carso alla Resistenza, sognò un’Italia dei combattenti

Dal Carso alla Resistenza, sognò un’Italia dei combattenti

Dirigente della Resistenza e del Partito d’Azione, capo del governo per pochi mesi subito dopo la Liberazione, poi custode della memoria antifascista. Così è ricordato Ferruccio Parri, scomparso trent’anni fa l’8 dicembre 1981. Ma nella sua biografia, ricostruita anni fa da Luca Polese Remaggi nel saggio La nazione perduta (Il Mulino), vi sono altre tappe importanti.
C’è anche il Parri redattore del «Corriere della Sera» dal 1922 al 1925, fino alla cacciata di Luigi Albertini voluta dai fascisti. Ma soprattutto c’è la sua esperienza durante la Prima guerra mondiale, cui partecipò da ufficiale e da convinto interventista, nella speranza che il conflitto potesse innescare un profondo rinnovamento della vita italiana, spazzando via per sempre il clima mediocre e compromissorio del parlamentarismo giolittiano.
Per un anno e mezzo il futuro capo del governo si battè valorosamente in prima linea, meritandosi tre medaglie d’argento, cui si aggiunse anche una croce di guerra francese. Allontanato dal fronte per via di un congelamento, fu promosso maggiore e nei mesi a cavallo tra il 1917 e il 1918 frequentò a Verona un corso ufficiali che lo avrebbe proiettato verso lo stato maggiore dell’esercito, dove prestò servizio fino al termine del conflitto.
Nel frattempo le armate italiane avevano subito la disfatta di Caporetto, che su Parri ebbe ovviamente un forte impatto. Lo si vede dai brani inediti, riportati qui accanto, di una lettera al padre del 14 novembre 1917: non devono ingannare gli episodi tragicomici riferiti dal giovane ufficiale (era nato a Pinerolo nel 1890) sul comportamento delle truppe in ritirata, perché il dato più saliente è la sua sfiducia verso il fronte interno, verso coloro che sono rimasti lontani dalle trincee.
Parri pensa che costoro «non si rendano conto bene» dei pericoli che corre la patria in quel momento drammatico. Giudica la situazione talmente degradata «che anche una disfatta ci servirebbe». Dichiara apertamente il suo «schifo». Teme insomma che l’Italia non sia all’altezza della prova. Partito per il fronte augurandosi che la guerra desse un forte scossone al Paese, si era convinto ancor più, come ha scritto Polese Remaggi, che «una nuova aristocrazia borghese intellettuale, forgiatasi nelle trincee, dovesse mettersi a capo di una rivoluzione nazionale».
Infatti all’indomani della guerra Parri invocherà una «democrazia dei combattenti», capace d’integrare le masse nello Stato. E questo ci dice quanto fosse discutibile la pretesa del fascismo d’incarnare «l’Italia di Vittorio Veneto», poiché una parte tutt’altro che trascurabile dell’interventismo e del combattentismo (oltre a Parri si possono citare Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Randolfo Pacciardi, Raffaele Rossetti) si era invece schierata contro Mussolini.
Allo stesso tempo è interessante notare come il Parri della Grande guerra anticipi per alcuni versi quello della Resistenza. Anche dopo il 1945 il leader antifascista riteneva che le forze temprate dalla lotta partigiana dovessero costituire la spina dorsale della nuova Italia. E anche allora andò incontro a una cocente delusione, per quanto meno amara di quella che lo aveva visto, negli anni Venti, opporsi coraggiosamente, ma invano, all’avanzata delle camicie nere verso la dittatura.

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