VITA DA FREE LANCE Dall’università al Teatro Valle, un nomadismo metropolitano disincantato per difendere una forma di vita indipendente. «La furia dei cervelli», un saggio che passa in rassegna le forme del lavoro della conoscenza
VITA DA FREE LANCE Dall’università al Teatro Valle, un nomadismo metropolitano disincantato per difendere una forma di vita indipendente. «La furia dei cervelli», un saggio che passa in rassegna le forme del lavoro della conoscenza
Meglio un cervello furioso di uno fuggitivo? Questo libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, per quanto il gioco di parole del titolo – La furia dei cervelli, manifestolibri, pp. 167, euro 18 – possa farlo pensare, non si occupa di giovani talenti che emigrano, ma del tema dell’indipendenza. Di grande attualità perché mai ci fu un periodo della storia del capitalismo dove il concetto di indipendenza ha subito tante offese. L’idea moderna di stato sovrano è nata con le grandi monarchie del Quattrocento, è stata il fondamento dell’idea di stato finché il concetto roussoviano di patto sociale non l’ha soppiantata. Da allora solo il pensiero marxista dell’estinzione dello stato ne ha rappresentato il contraltare. Ma solo il capitalismo contemporaneo, attraverso i suoi meccanismi finanziari, è riuscito a realizzarla mandando in frantumi non l’idea ma la consistenza della sovranità. Si chiude oggi un ciclo di seicento anni di storia. E che resta dell’idea di indipendenza? Forse resta, viene alla luce, la sua versione migliore, quella dell’indipendenza e della sovranità delle comunità autogovernate. Ma c’è un livello successivo (o antecedente) ed è quello del lavoro. Il lavoro indipendente è una brutta bestia, è qualcosa che la storia del capitalismo e del socialismo ha guardato con sospetto, perché non è un lavoro salariato. È un lavoro «atipico», «non standard», dunque non va inserito nei sistemi di previdenza e sicurezza sociale. Ma al tempo stesso viene assunto a modello sul quale far convergere poco a poco il lavoro salariato del nuovo Millennio.
Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri hanno affrontato il tema dei lavoratori della conoscenza come dovrebbe sempre essere affrontato: a partire da un movimento reale, sia pure localizzato, sia pure di breve durata, ma reale, da un conflitto aperto, non solo immaginato. Non è possibile parlare di lavoro, qualunque esso sia, artigianale, creativo, industriale, forzato, femminile, senza parlare di conflitto. Le analisi puramente «tecniche», per quanto brillanti o approfondite, per quanto interessanti o stimolanti, sembrano lasciare sempre il discorso a metà. Dopo averle lette ci si chiede sempre: e allora? Se la condizione è quella descritta che succede, dove avviene il cambiamento? Qual è il momento in cui il soggetto prende consapevolezza di quella condizione?
Per gli autori il punto di partenza è il movimento della «pantera», 1990. Quanto fossero coscienti gli studenti di allora di «fare storia» semplicemente perché la loro era la prima protesta argomentata della nuova Italia, della Seconda Repubblica, non è dato di sapere. Di certo ne sono consapevoli i due autori e questo rende particolarmente apprezzabile il loro sforzo. Non sarà mai abbastanza l’impegno pedagogico per sottolineare che il 1989/90 rappresenta la chiusura del ciclo storico che si era aperto nel 1943/45 con la fine del fascismo. Nasce una nuova compagine statale che porta in sé le stimmate del dramma che stiamo vivendo oggi. Ciccarelli e Allegri scrivono: «nel 1990 il movimento degli studenti comprese le finalità della trasformazione neo-liberista dell’economia della conoscenza». Detto in soldoni: capirono che sarebbero stati loro la categoria più beffata. Il loro antenato non è la figura di intellettuale proletarizzato dell’iconografia rivoluzionaria, ma il flaneur parigino che sogna e soggettivamente pratica una quotidianità fuori dagli schemi del lavoro salariato. L’incursione nella storia delle avanguardie artistiche dell’Ottocento e del primo Novecento è suggestiva. Ma gli autori vanno ancora a ritroso, al Seicento, per trovare le tracce di quello che chiamano il Quinto Stato, gli indipendenti, mercanti o artisti o artigiani o professionisti, quelli che Foucault definiva come coloro che possiedono «l’arte di essere governati di meno». Considerati il diavolo oppure disprezzati, secondo le epoche. Il tentativo di trovare una genesi storica di quello che viene descritto come fenomeno post-fordista, post-moderno, rappresenta uno degli aspetti più interessanti del libro.
La parte finale è interamente dedicata a quelli che comunemente chiamiamo «i movimenti» (i precari, gli universitari, il teatro Valle ecc.). La lettura che ne viene data è complessa, perché si cerca di rintracciare all’interno di quei movimenti il processo costituente del nuovo ceto o, meglio, della nuova modalità di esistenza propria del post-moderno. Rimane l’incognita del rapporto con il fare politica, con quell’agire sociale che è in grado di contrastare i meccanismi del potere. La sproporzione tra i mezzi a disposizione degli uni e degli altri sembra oggi tale da togliere ogni plausibilità a un discorso sul conflitto, cioè su un comportamento che costringa l’avversario a tenerne conto, a sentirsi impegnato a difendersi. La sproporzione sembra tale che l’idea stessa del conflitto appare obsoleta. In realtà questi sono termini propri della società del salario, il cosiddetto «rapporto di forze» è un tipico paradigma dell’epoca fordista, è stato anche il più potente giustificativo dell’opportunismo. Qui ci troviamo in un altro sistema di valori, in un sistema dove quello che viene classificato come conflitto, in realtà è quel semplice istinto di sopravvivenza che noi chiamiamo istinto di libertà.
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