Il debito verso gli altri

Lucio Magri ha scelto di uscire di scena in una forma modernamente tragica che ci rimanda ad alcuni personaggi dell’epica greca. Anche chi non lo conosceva personalmente, ma ne aveva letto le lucide analisi o l’aveva visto fino a venti anni fa dibattere brillantemente alla tv, è rimasto sconvolto e non ha potuto evitare di porsi più di una domanda.

Lucio Magri ha scelto di uscire di scena in una forma modernamente tragica che ci rimanda ad alcuni personaggi dell’epica greca. Anche chi non lo conosceva personalmente, ma ne aveva letto le lucide analisi o l’aveva visto fino a venti anni fa dibattere brillantemente alla tv, è rimasto sconvolto e non ha potuto evitare di porsi più di una domanda. Come è accaduto, nel luglio del 1995, con la scelta di Alex Langer, mio caro amico, di togliersi la vita a nemmeno cinquant’anni. Ancora oggi molti lo rimpiangono e pensano che i Verdi non sarebbero finiti nella marginalità politica se lui non avesse fatto quella scelta “incomprensibile”. Anche se Alex aveva scritto un messaggio agli amici in cui denunciava la stanchezza del vivere, del sopportare pesi troppo grandi (la tragedia yugoslava in primis), ed invitava tutti a «continuare a lottare per ciò che era giusto». Alex era un essere ipersensibile, non sopportava il continuare a vivere assistendo impotente alla ferocia dei massacri su base etnica, alla stupidità umana nel distruggere il pianeta, a vedere i bambini di una scuola – dove era stato una settimana prima – scomparire sotto le bombe. Lucio Magri non ci ha lasciato un messaggio, ma la sua scelta parla di per sé e ci interroga.
A teatro come nella vita, uscire di scena è un’arte, difficile e tormentata. Come recita il “regista” in una pièce dal titolo “Uscire di scena”: «L’inizio è facile. Gli spettatori sono ancora freschi, disponibili, curiosi. Gli attori sono carichi di adrenalina. L’entrata in scena è la cosa più semplice del mondo. Sicuramente lo è a teatro. Ma è l’uscita di scena che è una tragedia. Soprattutto per i grandi attori» (N. Nerpa, Il teatro dell’identità, p.175). E sicuramente Lucio Magri è stato un grande attore, protagonista per decenni del dibattito politico dentro la sinistra italiana, e non solo. Un punto di riferimento importante per gli intellettuali della sinistra “critica” che si andavano formando negli anni ’70 ed ’80. Dopo la scomparsa/dissoluzione del Pci, che aveva tenacemente tentato di bloccare, ha cominciato a ritirarsi, a sentire “estraneo” il teatro della politica. Non ha fatto quella scelta patetica di chi invecchia facendo finta di essere “eternamente giovane”, al passo con i tempi, cambiando colore e casacca per ogni nuova location della storia. Questo, come ci hanno raccontato i suoi amici più cari su questo quotidiano, rimane il suo primo, fondamentale, messaggio: la coerenza, la serietà, la profondità delle convinzioni. Ma, la sua morte una questione “politica” la pone. Non abbiamo né l’autorità, né il titolo per discettare di questioni complesse come la sacralità della vita o della morte, ma abbiamo il dovere di non fuggire alla questione della “sovranità” sulla nostra vita. Noi che parliamo di “beni comuni”, che denunciamo il consumismo individualistico, il paradigma dell’homo oeconomicus “solo” davanti alle sue scelte, guidato solo dal calcolo costi-benefici, come possiamo ridurre il suicidio ad un problema personale? Ed il legame sociale, la rete degli amici e degli affetti, le persone che ci chiedono di vivere ancora per loro? Nasciamo non per nostra scelta, ma in quanto un uomo ed una donna decidono di metterci al mondo e, soprattutto, cresciamo bene o male a seconda dell’affetto, delle cure, dell’amore che abbiamo ricevuto. Non abbiamo nessun debito con tutte queste persone e con il resto del genere umano per tutto quello che ci è stato dato dal lavoro, dall’attenzione, dall’ingegno di chi abbiamo e non abbiamo conosciuto? Non esiste solo il “debito sovrano” (che poi sovrano non è, ma dipendenza dalla speculazione finanziaria), esiste un debito verso gli altri esseri umani, a partire da chi ci sta vicino, anche quando vivere è penoso e staccare la spina può sembrare una liberazione. In una concezione che non sia neoliberista/consumistica la vita ha un valore che va al di là del ruolo sociale che si ricopre, delle luci della ribalta, della sua utilità sociale, economica o politica. Altrimenti un lavoratore dipendente, anonimo e senza gloria, quando arriva alla pensione dovrebbe pensare solo a come togliere il disturbo. Che poi è quello che vorrebbe il sistema biocapitalistico che ha ridotto la vita e la natura a merce, da usare e buttare quando non serve più. È una questione che mi è apparsa chiara solo due anni fa quando una giovane donna che aveva subito una gravissima perdita (il figlio) mi ha detto «la vita non è nostra, ma di chi ci vuol bene… per questo continuo a vivere».

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