Il movimento dei consigli, la liberazione nel lavoro, la lotta di classe in corso in Europa. Ecco da dove ripartire L’articolo di Sergio Cesaratto “Liberisti non riformisti” (il manifesto, 26/11) coglie perfettamente e con rara incisività la storia non lineare dell’abuso del termine riformismo e delle pratiche che avremmo chiamato semplicemente antioperaie (e ostili ai salariati e al lavoro comandato in generale) della corrente liberista del Pd in cui sono confluiti anche moderati tradizionali ma che ha certamente le sue credenziali nella destra cosiddetta amendoliana profondamente sospettosa verso le lotte operaie egualitarie e le loro dinamiche salariali.
Il movimento dei consigli, la liberazione nel lavoro, la lotta di classe in corso in Europa. Ecco da dove ripartire L’articolo di Sergio Cesaratto “Liberisti non riformisti” (il manifesto, 26/11) coglie perfettamente e con rara incisività la storia non lineare dell’abuso del termine riformismo e delle pratiche che avremmo chiamato semplicemente antioperaie (e ostili ai salariati e al lavoro comandato in generale) della corrente liberista del Pd in cui sono confluiti anche moderati tradizionali ma che ha certamente le sue credenziali nella destra cosiddetta amendoliana profondamente sospettosa verso le lotte operaie egualitarie e le loro dinamiche salariali. Ma la storia del Pci nella sua complessità non può certo essere schiacciata in quella tradizione: né quella del rapporto a lungo fecondo fra partiti comunisti europei e lotte operaie.
Paolo Favilli ha di recente molto ben descritto e inseguito in tutte le sue pieghe (Il riformismo e il suo rovescio, FrancoAngeli, Milano 2009) il rovesciamento del termine riformismo che, come scrive Cesaratto, è stato a lungo la pratica politica di organizzazioni capaci di agire nel conflitto e ancor più di recente lo stesso Favilli ha ricordato, sulla scorta di Togliatti interprete del giolittismo, come nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l’ordinaria normalità, la normalità strutturale, delle pratiche organizzative e politiche. «Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell’ordinario svolgimento strutturale, le fratture inattese della storia». Comprendere (ricomprendere) la lunga vicenda di conflitti industriali e sociali e di compromessi, di istituzioni che l’hanno alimentata, organizzata e resa possibile in una sola storia: molti storici dei mondi del lavoro di alcune generazioni hanno tracciato questa continuità fra riformismo operaio, conquiste riformatrici e narrazione politica.
Oggi, ricorda Cesaratto, rivendicare una distribuzione del reddito fortemente a favore dei salari diretti e indiretti, la piena occupazione e la legittimazione democratica delle istanze dei lavoratori rappresenta un progetto coraggioso e degno dell’impegno di una sinistra che voglia continuare ad essere utile alle classi e agli ambienti che ha l’ambizione di rappresentare e dunque al proprio paese: come sapevano i migliori riformisti, Riccardo Lombardi, ad esempio, una politica economica dal basso può essere messa in campo attraverso conflitti che partono dalle esigenze e dalle condizioni, anche elementari, dei lavoratori.
Ci avviciniamo qui però a un problema che né la anche migliore tradizione comunista né la anche migliore tradizione socialdemocratica hanno tradotto in stabili istituzioni che tengano conto della necessità della “legittimazione democratica delle istanze dei lavoratori” e della legittimità di un costante rilancio del conflitto industriale per ottenere salario – senza il quale ogni discorso rimane ideologico – ma anche controllo sul tempo, sul modo e sulla finalità del produrre. Questa esigenza declinata in forme talvolta direttamente politiche, altre volte in quella delle esigenze sorte dal rinnovamento delle forme della rappresentanza sindacale hanno caratterizzato in tutta Europa i due momenti in cui è stato messo in discussione lo sfruttamento nella forma dell’estorsione del plusvalore dal lavoro vivo non solo come rivendicazione salariale ma come almeno parziale riconquista della creatività e della finalità del lavoro operaio. Sono gli anni ’20 con il rinnovamento delle forme di rappresentanza quando il sindacato non è più soltanto il coordinatore, il finanziatore (attraverso le casse di resistenza) e il mediatore esterno delle lotte ma vengono riconosciuti gli eletti di Commissione Interna, i delegati di reparto. I delegati erano nati dalla necessità di dar voce alle esigenze elementari della forza lavoro nel momento in cui la mobilitazione industriale ne imponeva la collaborazione e sospendeva il diritto di sciopero ma negli anni Venti è da quell’innovazione che nasce il movimento consigliare, presto travolto da quella che il grande storico Charles Maier ha chiamato la «ricostruzione dell’Europa borghese» ma anche dal divorzio che nel socialismo reale si celebra fra proprietà dei mezzi di produzione e controllo operaio. Quell’archiviazione è stata foriera di future crisi e sconfitte. L’esigenza di trasformare la società innanzitutto conoscendo come lavorano, cosa fanno, come sono disciplinati e come potrebbero liberarsi nel lavoro le migliaia di operai, impiegati e tecnici è stata la grande innovazione degli anni Settanta (perlomeno italiani: ma anche in Europa esigenze di questo tipo sono emerse) a partire dall’indimenticabile autunno ’69. I lavoratori sono ormai entrati da tempo in cono d’ombra da cui li traggono ormai eventi luttuosi (le decine e centinaia di morti sul lavoro), problemi di sussistenza provocati dai licenziamenti, dalle delocalizzazioni, dalla precarietà che ormai, con buona pace dei giuslavoristi come Ichino, ha fatto il suo ingresso anche nella fabbrica tradizionale e nella Funzione pubblica. Ma essi hanno fatto anche la propria storia e la storia del nostro paese in un intreccio di cooperazione e conflitto che non ha trovato le forme definitive per esprimersi in forme politiche definitive. Comprendere nella propria strategia di trasformazione democratica e socialista, in ogni momento, una sguardo sul sociale che parta da come, quanto e perché si lavora. Non solo risarcire la precarietà attraverso sussidi monetari ma capire come essa si cala nell’organizzazione del lavoro. E anche, più semplicemente, scioperare anche quando c’è un “governo amico” perché gli scioperi possono anche indicare strade innovative da percorrere. Tutti problemi posti brutalmente all’ordine del giorno dalla lotta di classe, dalla “guerra finanziaria a bassa intensità” in corso in Europa.
Questo giornale ha seguito con particolare intelligenza la vicenda di Marchionne e della Fiat: di un avversario intelligente che cerca la collaborazione subalterna attraverso quel mix di violenza nelle relazioni industriali e di innovazione nell’organizzazione del lavoro che è di tutti gli avversari più pericolosi del movimento operaio a partire da Ford. Guardare con la stessa attenzione il vasto e ramificato mondo del lavoro: dovrebbe essere la parola d’ordine di un “se non ora quando” di cui c’è drammaticamente bisogno.
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