Se nàè discusso a giugno, tra le forti polemiche che di consueto accompagnano ogni iniziativa che vede come protagonista Vittorio Sgarbi. La polemica si è riaperta circa una settimana fa, quando lo stesso Sgarbi, in una conferenza stampa organizzata presso il Circolo del Lettori di Torino, ha presentato la mostra che, dal 19 dicembre al 31 gennaio, sarà allestita presso il già annunciato Palazzo delle esposizioni, gratuitamente concesso in prestito dalla giunta comunale torinese.
Se nàè discusso a giugno, tra le forti polemiche che di consueto accompagnano ogni iniziativa che vede come protagonista Vittorio Sgarbi. La polemica si è riaperta circa una settimana fa, quando lo stesso Sgarbi, in una conferenza stampa organizzata presso il Circolo del Lettori di Torino, ha presentato la mostra che, dal 19 dicembre al 31 gennaio, sarà allestita presso il già annunciato Palazzo delle esposizioni, gratuitamente concesso in prestito dalla giunta comunale torinese.
Una lista di 600 nomi del mondo dell’arte “underground” – o almeno questa è l’idea che si vuole spacciare al pubblico – ancora in fase di allestimento. Una lista da contrapporre alle solite proposte di quella che Sgarbi definisce la “mafia dell’arte”: l’establishment politico e intellettuale che porta nelle sale «sempre i soliti nomi, quelli che i critici ritengono essere gli unici degni di essere visti dal grande pubblico». Pur riconoscendo la verità delle sue parole, però, viene del tutto spontaneo domandarsi in base a quale principio artisti scelti unicamente da lui – che sappiamo non essere affatto estraneo all’élite culturale del nostro paese – dovrebbero essere per qualche ragione “più degni” degli altri di essere esposti.
Ad ogni modo, pur essendo la lista ancora in fase di costruzione, e pur non essendo ancora stata resa nota nella sua interezza, il buon Sgarbi – che di polemica creata ad arte per fini pubblicitari se ne intende – non ha potuto fare a meno di lasciarsi sfuggire qualche nome, causalmente tirato fuori dal cappello. Tra questi, il nome che più spicca sulle varie testate è quello di Adriana Faranda, interessantissima artista di origini siciliane.
La prima frase con cui Adriana sceglie di presentarsi sul suo sito è eloquente: «Nasco in Sicilia sulle colline dei Nebrodi, nel lontano 1950, e nella mia esistenza attraverso molteplici vite». Non avrebbe potuto usare parole più corrispondenti al vero, e non è certo un caso che questa convinzione si ripercuota in modo prorompente sul suo lavoro artistico. Un lavoro che nasce da una riflessione profonda sul concetto di identità: sulle maschere con cui gli individui scelgono di costruire i propri rapporti sociali e sull’essenza estremamente effimera, impalpabile, mutevole dell’umano.
Il suo lavoro, dunque, nasce da lontano: è ancora ragazzina quando si avvicina al mondo della pittura, esplorando ogni genere di stile. Ed è invece sulla soglia dei cinquant’anni che l’incontro con Gerald Bruneau spalanca davanti ai suoi occhi l’immensa porta che dà sul mondo della fotografia, aprendola alla possibilità attraente di mescolare insieme diversi generi artistici. Si interessa della manipolazione digitale delle immagini: inizia a elaborare progetti di grafica e fotografia e ad ottenere i primi riscontri. Nasce così la Metalfisica dell’esistenza, una collezione di ritratti fotografici di Bruneau: digitalizzati, stravolti, elaborati, trasformati. Una maschera, «sentimento maldestro dell’identità», a celare ogni personaggio. E poi il colore, lasciato libero di viaggiare attorno «alla materia vivente imprigionata».
Una scelta eccezionale e coraggiosa, dunque, ma anche un’arma a doppio taglio. Se, infatti, il fatto di aver dato in pasto alla stampa – tra tanti – proprio il nome di Adriana Faranda, deriva evidentemente da un’esigenza di marketing, d’altro canto la stigmatizzazione che ne hanno fatto i media rischia di essere un danno per lei e per la comprensione stessa della sua opera artistica.
Se i titoli dei giornali, nessuno escluso, pongono l’accento in modo insistente su quel “ex Br” che rischia di ingabbiarla in un ruolo che non le appartiene più da tempo, come può un progetto che è interamente centrato sul carattere multiforme dell’individuo essere compreso?
«Le identità si intrecciano, si mischiano, si esaltano, si difendono, si isolano, si sovrappongono», scrive Adriana Faranda sul sito che espone le sue creazioni. Eppure nessuno sembra intenzionato a liberarla da quel marchio d’infamia cui sono condannati, come pena aggiuntiva al carcere già scontato, tutti coloro i quali sono stati parte attiva dei gruppi eversivi negli anni della lotta armata. Non è un caso che lei venga portata a giustificarsi: spera di non «ferire nessuno nella sua sensibilità». Non sa se presentarsi a Torino, all’esposizione del suo lavoro. «Se dovessi scegliere oggi cercherei di vincere il panico e di andarci», afferma. Però teme «che questo possa suscitare polemiche».
Un consiglio, Adriana: presentati all’esposizione, ricevi i riconoscimenti per la tua arte. A testa alta, perché te li meriti, e perché è giusto così.
0 comments