INTERVISTA In poco più di dieci anni tutto è cambiato, in meglio, nel subcontinente
Parla Aurelio Alonso, vice direttore della Casa de las Americas
INTERVISTA In poco più di dieci anni tutto è cambiato, in meglio, nel subcontinente
Parla Aurelio Alonso, vice direttore della Casa de las Americas L’AVANA. In poco più di dieci anni, dalla prima elezione di Hugo Chávez in Venezuela nel 1998, fino a quella recente di Ollanta Humala in Perù, l’America latina è stata protagonista di un cambiamento spettacolare. Da feudo di una borghesia oligarchica subordinata alla dominazione degli Stati uniti, e da laboratorio sperimentale delle teorie e pratiche neo-liberiste da essi imposte, si è passati, mediante un’impressionante serie di vittorie elettorali, a governi di sinistra o progressisti in tutto il subcontinente – eccetto Colombia e Cile – e in due paesi dell’America centrale, Salvador e Nicaragua.
Con differenti gradi di radicalità, questi governi sono riusciti a recuperare parte della sovranità politico-economica e a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, riducendo le ingiustizie e la forbice sociale che caratterizzava (e caratterizza) l’America latina. Ma le borghesie, pur espulse dal governo, conservano gran parte del potere economico e mediatico, un’enorme influenza culturale e mobilitano un vasto concerto internazionale per tentare la controffensiva.
In questo quadro non basta più dimostrare che, in America del sud, la sinistra è capace di governare il sistema esistente meglio della destra in termini di crescita e giustizia sociale, ma è necessario radicalizzare le varie esperienze mediante riforme istituzionali e costituzionali che permettano di cambiare il sistema ereditato dai precedenti governi conservatori o di destra. Questa, in sintesi, è la tesi del sociologo e saggista Aurelio Alonso, vice-direttore della rivista Casa de las Américas, un osservatorio prestigioso e privilegiato sull’America latina.
Si tratta, dice, di una situazione in divenire, non certo conclusa, dove, per citare Gramsci, il vecchio affonda, però il nuovo che dovrebbe seppellirlo non è ancora riuscito a costruirsi. Perché?
«Per comprendere la situazione attuale, bisogna fare un passo indietro. Negli anni ’80 del ‘900 la cosiddetta “transizione democratica” nasce in America latina, prima che nei paesi dell’est europeo. Lo tsunami neo-liberista provocato dagli Usa e le democrazie oligarchiche chiamate ad applicarlo, sostituiscono ben 15 dittature militari. E questo non per offrire ai cittadini maggiori spazi reali di democrazia, ma perché la dominazione imperiale trova più conveniente operare in un nuovo ambito istituzionale, una volta represse le organizzazioni popolari o di classe. Le “riforme strutturali” servirono ad applicare le ricette neo-liberiste, la democrazia pluripartitica assorbiva meglio le tensioni sociali provocate dai tagli dell’educazione e della sanità, dall’impoverimento della popolazione. Invece del promesso “spargimento” del benessere, le politiche neo-liberiste lasciarono i governi sempre più debilitati, acutizzarono la povertà, le differenze sociali, le proteste».
I dogmi neo-liberisti sono crollati, però i movimenti di sinistra hanno vinto mediante elezioni, dunque in base a programmi riformatori, non rivoluzionari…
«Esattamente. Il merito di Chávez è stato proprio questo: di dimostrare che il meccanismo di democrazia formale creato con la logica di mantenere al potere le borghesie oligarchiche poteva essere usato da forze che si prefiggevano politiche a favore delle popolazioni. E il fatto che in quasi tutto il sub-continente, dal’Argentina al Venezuela, le sinistre o i movimenti progressisti siano andati al governo con elezioni è stato importante per garantirli dalla reazione imperialista. Una sorta di muro di contenimento che li ha resi meno vulnerabili. Così hanno potuto privilegiare l’economia reale ottenendo un vero boom economico.
Gli Usa rispetto a molti dei nuovi governi della regione hanno abbozzato. Non con Venezuela, Bolivia, Ecuador. Perché?
Perché hanno avviato processi di “rifondazione costituzionale” basati su scelte socialiste che hanno permesso importanti riforme per democratizzare e modernizzare il sistema politico ereditato dai sistemi precedenti. Riforme tendenti a cambiare i rapporti di forza e animate da movimenti popolari. L’ex presidente Lula ha dimostrato che la sinistra sa governare l’attuale sistema meglio della destra. Una iniziativa non certo rivoluzionaria come la Borsa famiglia è riuscita a far emergere dalla povertà 30 milioni di brasiliani in pochi anni. Un grande successo. Idem nell’Uruguay del presidente Mujica. Ma entrambi non hanno cambiato il sistema. E se vogliono progredire nella lotta alla povertà e all’ingiusta distribuzione della ricchezza e nel rafforzamento della democrazia a favore del popolo, dovranno farlo. Questa è la sfida di Dilma Roussef oggi in Brasile.
Dunque solo una radicalizzazione delle politiche sociali può permettere ai movimenti progressisti non solo di mantenersi al governo, ma anche di affrontare la controffensiva dei conservatori appoggiati dagli Usa?
Sì, è necessaria una progressiva radicalizzazione delle politiche sociali ed economiche, con tempi e modi diversi, ovvio. Poi è necessario l’incremento delle politiche d’ integrazione regionali. L’America latina potrebbe trasformarsi nella quarta macro-regione mondiale (dopo Usa, Ue e Asia) per attuare misure di sviluppo e resistere alla crisi globale. E’ un processo in corso che procede in varie direzioni rappresentate da entità come l’Unasur, il Mercosur, l’Alba…
Molti sostengono che senza l’esempio di Cuba l’America latina non sarebbe quella che è diventata oggi. Che ruolo gioca Cuba in questo contesto?
Per 50 anni Cuba ha dimostrato che sono possibili scelte radicali nella politica sociale e nella difesa della sovranità dall’ingerenza Usa. Oggi, nella situazione attuale dell’America latina, deve fare un passo in direzione opposta, ovvero diminuire quella radicalità che ha implicato molti sacrifici per il popolo cubano. E’ questo il senso delle riforme in corso del socialismo cubano.
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