Esattamente 102 anni fa, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il “Manifesto dei futuristi”, al cui punto 5 si leggeva: «Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita».
Esattamente 102 anni fa, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il “Manifesto dei futuristi”, al cui punto 5 si leggeva: «Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita». Un secolo dopo, si può constatare che l’asta del volante (dell’automobile, simbolo supremo di modernità per i futuristi) ha effettivamente trafitto la Terra, la cui corsa è arrivata all’orlo della catastrofe. Ed è segnale di un rovesciamento storico che ai “futuristi” oggi si sostuiscano i “territorialisti”, o difensori dei beni comuni, o salvatori del paesaggio, o propagatori del “chilometro zero”. E che in definitiva agli appassionati del dominio della tecnica succedano coloro che spiegano la crisi “perfetta” – che è sì finanziaria ed economica ma allo stesso tempo ambientale, sociale e democratica – con il “divorzio tra natura e cultura”. In altre parole, accade che il territorio, che è il luogo dove viviamo, produciamo e riproduciamo la società, ed è il prodotto storico del rapporto tra uomo e natura, è ormai vittima di una globalizzazione indifferente al reale benessere di chi ci abita e ai cicli riproduttivi naturali.
Giovedì e venerdì, a Firenze (Aula magna dell’università, piazza San Marco 4) si terrà il congresso fondativo di una cosa che si chiama Società dei territorialisti/e, figlia legittima, direi, della Associazione del Nuovo Municipio nata all’inizio del secolo sulla scia del “bilancio partecipativo” di Porto Alegre, reso famoso dal primo Forum sociale mondiale, nel 2001. Promotore principale dell’una e dell’altra cosa è Alberto Magnaghi, che ora, con i suoi sodali, è passato dal sostenere il bilancio partecipativo al proporre l’autogoverno e il “federalismo municipale solidale”, la cui sostanza è quel che i territorialisti chiamano “sviluppo locale autosostenibile”. O ancora, come dice Magnaghi nell’introduzione al congresso, si tratta di capire «come sottrarre spazio all’eterodirezione dei grandi poteri e rinsaldare in un territorio le sinergie fra sistemi produttivi, credito e società locali in progetti di autodeterminazione di regioni e micro regioni… Quali politiche e progetti sono in grado di produrre sovranità alimentare, energetica, produttiva, chiusura locale dei cicli ambientali, nuove relazioni sinergiche città-campagna, ripopolamento rurale della montagna, verso l’autodeterminazione e l’autogoverno… Come si allontana la morsa della globalizzazione economica, verso reti federaliste di città, regioni, stati, per una ‘globalizzazione dal basso’».
Lo scopo della Società dei territorialisti è creare e promuovere cultura, accompagnare l’aspirazione di un numero crescente di cittadini – molti, come ha testimoniato il referendum sull’acqua e sul nucleare – a riconnettere appunto natura e cultura. Ci lavoreranno, tra molti altri, studiosi come Giacomo Becattini, Franco Cassano, Piero Bevilacqua, Serge Latouche, Ezio Manzini, Anna Marson, Wolfgang Sachs, Giancarlo Paba, per citare solo i nomi più noti ai lettori del manifesto. Tutte le informazioni sono su www.societadeiterritorialisti.it.
www.denmocraziakmzero.org
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