La chiesa cattolica argentina conosceva e approvava i metodi usati dai militari durante la dittatura.
Nel marzo del 1995 il capitano di fregata Adolfo Scilingo mi raccontò che durante la dittatura aveva gettato in mare da un aereo trenta persone ancora vive, che erano state sequestrate e torturate nella Scuola di meccanica della marina (Esma), il principale campo di concentramento della marina militare argentina.
La chiesa cattolica argentina conosceva e approvava i metodi usati dai militari durante la dittatura.
Nel marzo del 1995 il capitano di fregata Adolfo Scilingo mi raccontò che durante la dittatura aveva gettato in mare da un aereo trenta persone ancora vive, che erano state sequestrate e torturate nella Scuola di meccanica della marina (Esma), il principale campo di concentramento della marina militare argentina.
Aggiunse che, secondo i suoi superiori, la gerarchia ecclesiastica approvava questo metodo, perché era un modo “cristiano e poco violento” di morire. Al ritorno dal primo volo, Scilingo era in preda ai sensi di colpa, ma il cappellano dell’Esma lo tranquillizzò citando la parabola biblica in cui si racconta della separazione del grano dall’erba cattiva. Ho raccontato questa storia nel libro Il volo. Le rilevazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos.
La confessione di Scilingo scatenò una reazione nell’opinione pubblica che mi sorprese, forse perché io conoscevo bene la questione: me ne ero occupato fin dalla mia prima inchiesta sull’Esma, pubblicata clandestinamente nel 1976, lo stesso anno del colpo di stato militare.
Questa volta la novità era che a parlare fosse uno degli assassini, non una delle vittime sopravvissute. Questo dimostrava che nelle loro testimonianze le vittime avevano detto la verità e le due versioni dei fatti coincidevano. Dopo le rivelazioni di Scilingo, Emilio Mignone, presidente e fondatore del Centro di studi legali e sociali (Cels), chiese di aprire un processo per chiarire cos’era successo a sua figlia Mónica Candelaria, sequestrata insieme a due sacerdoti e a un gruppo di catechisti che come lei lavoravano in una baraccopoli di Buenos Aires. Il tribunale accolse la sua richiesta e aprì un’inchiesta. In poco tempo i “processi per la verità” si diffusero in tutto il paese.
La paura del papa
La confessione di Scilingo ebbe un effetto dirompente anche tra i figli delle persone arrestate e scomparse durante la dittatura, che avevano vissuto nell’isolamento e nella paura per anni. Questa generazione di giovani si affacciò senza più timore sulla scena politica del paese e il 24 marzo 1996 un’enorme folla riempì plaza de Mayo per chiedere verità e giustizia.
Sia le vittime sia i carnefici, nelle loro testimonianze, parlano del ruolo della chiesa cattolica nello sterminio di centinaia di persone durante la dittatura.
In ogni contingente militare c’era un sacerdote che aveva il compito di convincere i detenuti a collaborare con l’esercito. Alcuni religiosi usavano l’uniforme da paracadutista e il presidente della conferenza episcopale, il cardinale Raúl Francisco Primatesta, aveva ricevuto un brevetto aereo ad honorem. Nel 1976 il giornalista Jacobo Timerman, durante un pranzo con uno stretto collaboratore del capo della marina Emilio Massera, disse: “Sarebbe meglio introdurre la legge marziale e condannare gli imputati alla pena di morte, solo dopo averli sottoposti a un regolare processo”. Ma il collaboratore di Massera rispose: “In questo caso interverrebbe il papa e sarebbe difficile proseguire con le fucilazioni”.
Molti anni dopo anche il generale Ramón Genaro Díaz Bessone, teorico della cosiddetta guerra controrivoluzionaria, in un libro ammise che durante la dittatura avevano sequestrato e ucciso clandestinamente gli oppositori politici, senza introdurre la legge marziale, per paura delle reazioni del Vaticano: “Pensate al casino che il papa scatenò contro Francisco Franco nel 1975 quando fece fucilare tre persone.
Sarebbe stato il finimondo. Non si possono fucilare settemila persone”. Díaz Bessone alludeva al fatto che nel 1975 il dittatore spagnolo Francisco Franco, ormai in declino, ricorse alla pena di morte contro gli avversari politici nonostante la condanna di tutto il mondo, compresa quella di Paolo VI. Tuttavia negli anni trenta il dittatore aveva ricevuto il sostegno dell’episcopato spagnolo e di Pio XI e Pio XII. Ma la situazione in Spagna era diversa, lì era stata combattuta una vera e propria guerra civile in cui anche gli avversari di Franco, i repubblicani, fucilarono molti nazionalisti, tra cui centinaia di sacerdoti. Invece in Argentina non si trattò di una guerra tra due gruppi armati avversari, ma di un’operazione di ingegneria sociale che andò ben oltre le contrapposizioni politiche.
Un’operazione che poté contare su un apparato ideologico e dogmatico e una retorica da crociata. Il cardinale Raúl Francisco Primatesta una volta disse che lui non era un profeta del castigo, ma che bisognava agire e non limitarsi alle parole. “Può darsi che il rimedio sia duro, perché la mano sinistra di Dio, si dice sia paterna, ma può essere molto dolorosa”. Sinistra è l’espressione che è stata usata per indicare la repressione, il rapimento, la tortura e l’uccisione segreta degli oppositori.
La Cité catholique
In occasione del giubileo del 2000 Giovanni Paolo II domandò a tutti gli episcopati del mondo di chiedere perdono per i loro peccati. La chiesa argentina lo fece con una spettacolare liturgia notturna che fu chiamata “la riconciliazione dei battezzati”. Una commissione internazionale di teologi aveva fissato i limiti di quest’autocritica: la chiesa è stata creata da Cristo e per questo è santa e senza peccato, ma per colpa dei suoi figli peccatori ha bisogno di purificarsi continuamente. Seguendo queste direttive, durante la cerimonia per il giubileo la chiesa argentina chiese perdono a Dio, ma non alle vittime. E mise sullo stesso piano il terrorismo di stato e la lotta armata di chi aveva cercato di resistere alla dittatura.
Tra gli invitati alla cerimonia c’erano i vertici dell’esercito, ma nessun familiare dei desaparecidos e delle persone uccise. Non fu fatto riferimento alle vittime cattoliche della dittatura: due vescovi, diciotto sacerdoti e centinaia di fedeli. Quando assunsi l’incarico di presidente del Cels chiesi all’episcopato che ci permettesse di entrare nei suoi archivi, come segno di apertura. La risposta fu stupefacente: ci dissero che la conferenza episcopale non aveva archivi e ci diedero un opuscolo di sessanta pagine intitolato La Iglesia y los derechos humanos (La chiesa e i diritti umani), pubblicato dopo la fine della dittatura. Quel libretto non contiene documenti integrali, ma solo paragrafi con molte omissioni segnate da puntini di sospensione. Per esempio vale la pena confrontare il documento País y bien común (Paese e bene comune), pubblicato due mesi dopo il colpo di stato del 1976, con la versione pubblicata nel 1982 e inserita nel 1984 nell’opuscolo La Iglesia y los derechos humanos.
In entrambe le versioni si dichiara che nessuna situazione di emergenza giustifica la violazione dei diritti umani. Ma in quella del 1976, a sostegno del comportamento del governo militare, si legge che “in casi straordinari non è ragionevole pretendere il godimento del bene comune e il pieno esercizio dei diritti, come avviene in tempi di abbondanza e di pace”. Questo passaggio manca nelle versioni del 1982 e del 1984.
In un altro paragrafo, presente nella prima versione ed eliminato nella seconda, si dice che è sbagliato pretendere “che gli organi di sicurezza agiscano con la purezza cristallina propria del tempo di pace”. E che è impossibile “sedare disordini le cui dimensioni tutti conosciamo, senza accettare le misure drastiche necessarie per reprimerli o non essere disposti a sacrificare una quota di libertà, sull’altare del bene comune”. Questo significa che “il bene degli individui” deve “essere subordinato” a un bene comune astratto che “esige l’esistenza dello stato con l’autorità necessaria”.
Come corollario di questa pastorale di guerra, l’episcopato chiese “la massima comprensione e tolleranza verso gli errori involontari”. Perché i valori di ognuno sono diversi: “C’è chi mette l’accento sulla sicurezza e chi sulla libertà personale”, dice la prima versione del documento. Il confronto delle due versioni del testo è stato solo una parte del mio lavoro di ricerca e mi ha fatto scoprire che la chiesa è meno monolitica di quanto si pensi. Con l’aiuto di sacerdoti e di credenti vicini a quegli ambienti sono riuscito a consultare gli enormi archivi che la chiesa argentina aveva negato di possedere. Ho lavorato segretamente per anni su quei materiali che rivelano la complicità della gerarchia ecclesiastica con il governo militare di Videla. Ho portato alla luce quella complicità e ho cercato di capirne le cause.
Il metodo del sequestro, della tortura e dell’eliminazione clandestina fu insegnato ai militari argentini da membri dell’organizzazione integralista cattolica Cité Catholique, fondata in Francia nel 1946 da Jean Ousset. Molti dei suoi dirigenti facevano parte dell’intelligence dell’esercito coloniale francese in Algeria e del gruppo terrorista Organisation de l’Armée Secrète (Oas) che si opponeva alla decolonizzazione. Nei primi anni sessanta, con l’indipendenza algerina e lo smantellamento dell’Oas, molti membri della Cité Catholique si rifugiarono in Argentina.
Nel paese trovarono la protezione di Antonio Caggiano, presidente della conferenza episcopale e capo del vicariato militare, e poi dell’arcivescovo Adolfo Tortolo, successore di Caggiano in entrambe le cariche. I due prelati permisero ai membri della Cité Catholique di svolgere attività di formazione e di reclutamento nelle caserme. I due, inoltre, riuscirono a tenere lontana la gerarchia ecclesiastica argentina dai segnali di rinnovamento che venivano dal concilio Vaticano II.
Nel 1961 l’Argentina fu il primo paese, dopo la Francia, in cui fu pubblicato il manifesto ideologico del gruppo: Le marxisme-léninisme di Jean Ousset. Lo tradusse il colonnello Juan Francisco Guevara, capo dei servizi segreti militari e presidente della sezione argentina di Cité Catholique (Ciudad Católica). La prefazione fu scritta dal cardinale Caggiano. Per Ousset, il nemico è chiunque cerchi di sovvertire l’ordine cristiano, la legge naturale o il piano del creatore. Questo spiega perché i discepoli di questa associazione perseguitarono persone e organizzazioni molto diverse tra loro. Nella prefazione dell’opera, il cardinale Caggiano afferma che il libro di Ousset è uno strumento di formazione in vista di “uno scontro mortale” che definisce “eminentemente ideologico” contro nemici che ancora “non hanno preso le armi”. È un’altra affermazione chiara della portata del progetto di sterminio, elaborato dal punto di vista teorico ben prima della nascita delle prime organizzazioni guerrigliere.
Juan Carlos Aramburu, successore di Antonio Caggiano all’arcivescovado di Buenos Aires, passava i fine settimana in una residenza a El Silencio, un’isola nel delta del Tigre non lontano dalla capitale. El Silencio era anche il luogo dove i seminaristi della diocesi festeggiavano ogni anno la fine delle lezioni. Nel 1979, durante un’ispezione della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh), la marina militare nascose nella struttura una cinquantina di prigionieri desaparecidos detenuti all’Esma, in modo che gli ispettori non li trovassero. È l’unico caso che conosciamo di un campo di concentramento all’interno di una proprietà della chiesa.
Perché un’istituzione che ha come scopo esplicito quello di fare del bene si fece coinvolgere fino a questo punto dalla dittatura militare che rappresentava il male assoluto? Per rispondere a questa domanda ho scritto le prime 1.500 pagine della mia ricerca che poi sono diventate un libro: L’isola del silenzio. Il ruolo della chiesa nella dittatura argentina.
Ma quella storia era solo la punta dell’iceberg, tutto quello che rimaneva sommerso era una quantità imponente di documenti, interviste e una vasta bibliografia. Mi resi conto che si trattava dell’involontario abbozzo di un secolo di storia politica della chiesa cattolica in Argentina. In quel periodo di tempo la chiesa fu il sostegno spirituale della classe dominante del paese, e alla base di quello che è successo troviamo la sovrapposizione tra i dogmi cattolici, i valori fondanti dello stato e l’autorità di cui furono investiti i militari e i vescovi per punire qualsiasi deviazione dall’unica verità ammissibile.
Il processo di secolarizzazione della società argentina cominciò alla fine dell’ottocento grazie alla borghesia liberale del paese che importò il modello economico liberista da Londra e quello culturale da Parigi. Fu istituita l’anagrafe e le scuole diventarono pubbliche. Fino ad allora sia l’insegnamento sia i registri di nascita e morte erano settori completamente controllati dalla chiesa e queste nuove leggi contribuirono a ridurne l’influenza. Ma la spinta riformista non riuscì a separare lo stato dalla chiesa, mentre nei paesi vicini il processo andò in questa direzione.
Per esempio, nel 1891 la costituzione brasiliana proibì le sovvenzioni statali alla chiesa e stabilì che nessun culto avrebbe avuto rapporti privilegiati con il governo, l’istruzione sarebbe stata laica, i cimiteri di proprietà dello stato e il matrimonio civile. In Uruguay il divorzio consensuale diventò legge nel 1907 e nel 1913 fu approvato anche il divorzio per volontà di uno solo dei coniugi. La costituzione uruguaiana del 1919 e quella cilena del 1925 misero in atto una serie di misure che servivano a separare la chiesa dallo stato. Per non parlare della costituzione messicana del 1917 e delle leggi approvate nel paese nel 1924.
In Messico le scuole cattoliche furono proibite e fu vietato ai sacerdoti di dire messa fuori dalle chiese e d’indossare abiti religiosi per strada, furono confiscate tutte le proprietà ecclesiastiche e fu vietato ai religiosi di condurre attività politiche. Per questo, cinquant’anni dopo, le persone perseguitate dall’episcopato argentino trovarono rifugio nella chiesa cilena, brasiliana e uruguaiana. Questa situazione condizionò anche il Vaticano. Paolo VI resistette alle pressioni del dittatore cileno Augusto Pinochet che chiedeva la sostituzione del cardinale Raúl Silva Henríquez, mentre diede la sua benedizione all’argentino Jorge Videla ed espresse ammirazione per la personalità dell’ammiraglio Emilio Massera, gli uomini forti della giunta militare argentina.
In Messico ci fu una rivoluzione popolare. Il Brasile, il Cile e l’Uruguay ebbero dei governi borghesi che tagliarono il cordone ombelicale con la chiesa seguendo il motto di Charles de Montalembert e Camillo Benso di Cavour: “Libera chiesa in libero stato”. Ma il liberalismo argentino non convolò mai a nozze con la democrazia. La borghesia innovatrice del paese non creò un partito politico in difesa dei suoi interessi, né fu in grado di articolare una risposta unitaria e coerente ai grandi movimenti popolari di stampo socialista. La classe dominante, spaventata dalla rivoluzione bolscevica del 1917, si riavvicinò alla chiesa e ricucì i rapporti che si erano deteriorati dalla fine dell’ottocento a causa del breve periodo di riforme liberali.
La riconciliazione
In Argentina la borghesia e la chiesa affrontarono insieme le nuove sfide politiche, seguendo il copione gentilmente fornito dalla chiesa, che prevedeva gerarchie rigide e ubbidienza. I cappellani militari svolsero un ruolo centrale nell’indottrinamento dei vertici dell’esercito, che operarono come un vero e proprio partito e usarono la spada per risolvere i nodi politici che non sapevano sciogliere altrimenti.
Dal 1930 al 1990 l’Argentina ha subìto almeno un colpo di stato ogni dieci anni. Alcuni sono falliti e altri sono riusciti, ma tutti hanno potuto contare sul sostegno dei vescovi. Nel 1925 Pio XI pubblicò la sua enciclica Quas Primas. Nell’opera il papa rimpiange il medioevo e condanna le forze contrarie all’ordine clericale: il protestantesimo, la massoneria, il liberalismo, il socialismo, il comunismo.
Per combatterle bisognava coltivare il rispetto dell’autorità e della disciplina che avevano retto la cristianità nel medioevo. Secondo Pio XI la fede non doveva rimanere confinata nelle chiese, ma doveva guidare la condotta dei governi, che a loro volta dovevano riconoscere la “regalità sociale di Cristo” ovvero la superiorità del regno della chiesa sulla società. Questa concezione ha guidato l’azione della chiesa in Argentina più a lungo che in Europa. Quando fu evidente che la dittatura stava per finire e che la società chiedeva di fare chiarezza sui crimini commessi, l’episcopato cercò di salvare i suoi membri e propose di occuparsi del processo di riconciliazione. Il metodo che fu proposto fu quello della confessione domenicale. Ma i militari non accettarono l’intervento della chiesa, senza capire che questo rifiuto avrebbe portato a una lunga stagione di processi.
Oggi l’Argentina è il paese sudamericano che ha fatto più passi avanti in questo campo: sono stati processati molti dei responsabili degli omicidi e delle torture, tra i quali figurano alcuni sacerdoti. I processi hanno danneggiato, forse per sempre, l’immagine della chiesa e la sua influenza in Argentina.
Dopo la fine della dittatura militare, la chiesa argentina prese le distanze dal potere, ma non rinunciò alla pretesa di orientare la politica. L’ha dimostrato nel 2010 quando ha intrapreso una “guerra santa” contro la legge che ha consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La legge è stata approvata da una coalizione di diversi partiti e la pressione della chiesa in quel caso non è stata efficace. Ma le gerarchie si preparano a un nuovo braccio di ferro sulla depenalizzazione dell’aborto, in fase di discussione in parlamento.
Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 925, 25 novembre 2011
Horacio Verbitsky è un giornalista argentino, scrive su Página 12. È autore di una storia politica della chiesa in quattro volumi. Il suo ultimo libro tradotto in italiano è Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare.
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