Cinema. È morto a 84 anni Ken Russell, il cineasta inglese più visionario, barocco e scandaloso. Tra i suoi 20 classici della controcultura «I diavoli», «Tommy» e «Donne in amore» Il «Messia selvaggio» del cinema inglese. . Ma anche le sue regie liriche turbavano
Cinema. È morto a 84 anni Ken Russell, il cineasta inglese più visionario, barocco e scandaloso. Tra i suoi 20 classici della controcultura «I diavoli», «Tommy» e «Donne in amore» Il «Messia selvaggio» del cinema inglese. . Ma anche le sue regie liriche turbavano
«Il matrimonio tra un uomo e una donna è insufficiente se non repellente: tutto quel mondo fatto di coppie, ogni coppia nella sua piccola casetta, a badare ai suoi piccoli interessi, a cuocere nel suo piccolo privato…credo invece nel complementare, perfetto rapporto tra uomo ed uomo, complementare al matrimonio, non simile, ma ugualmente creatore, ugualmente sacro»».
È Rupert Birkin (Alan Bates) in Donne in amore (1969), da D.H.Lawrence, film dalle 4 candidature all’Oscar (ne vinse uno, e paradossalmente per merito di Glenda Jackson), mentre spiega all’agognato amico – l’ancor interdetto Gerard Crich (Oliver Reed), come lui sposato – l’importanza dell’amore omosessuale come altra potenzialità della vita. Al centro del film, ambientato negli anni 20 del secolo scorso, una delle scene più celebri e conturbanti di omoerotismo, proprio la lotta davanti al caminetto dei due mattatori, nudi e sudati in full frontal, rosso porpora come le fiamme, che mimano dietro la danza seducente (sublimazione di una fisicità repressa) un amplesso fiero e possente.
L’autore di questo classico gay, il regista inglese Ken Russell, la cui filmografia è uno scrigno che ben conserva i tesori della controcultura, anche antipsichiatrica, e delle utopie sessantottine, è morto domenica a 84 anni, tra le braccia di un amico, il critico d’arte Norman Lebrecht. Più che un grande autore fu il geniale cineasta (quattro mogli e e un figlio) che documentò, con i colori di una tavolozza lisergica, l’era dell’acquario e l’avvocato difensore di artisti, poeti e rivoluzionari che erano stati vittime dei loro tempi. Quel che deve fare ogni spirito critico: lavorare per il futuro, risarcire gli spettri e mandare in tilt le «macchine del fango».
Ma ognuno degli oltre 20 film di Russell, rigonfi di scene «fiammeggianti» e barocche, di attori-forza della natura e di ruoli che a mala pena li contengono, acido ibrido di cultura alta e sapienza di strada, scatenava scandali e controversie infinite, perché il cineasta di Southampton – che da piccolo era sempre al cinema con mamma perché papà vendeva scarpe e picchiava la moglie – ex marinaio, aviatore, ballerino, attore, fotografo e regista Bbc, conosceva bene i punti deboli della concezione mainstream del mondo, la vigliaccheria delle sue sopraffazioni, la ferocia delle sue ipocrisie e la criminalità del suo puritanesimo. E usò perfino le armi improprie del kitsch figurativo, del provocatorio, dell’eccessivo, del cerebrale, dell’orecchiante, del formalistico, del compiaciuto (la sequenza con la macchina a mano nella cabina letto di Donne in amore, anticipa il mal di di mare Dogma), dell’exploitation, per bombardare il cattivo gusto di un potere violento davvero, che si compiace della propria degradazione spirituale chiamandola imprenditoria, moderazione e eleganza. Ricordate Oscar Wilde, no?
«So bene che i miei film disturbano. È quello che voglio». Cosa disturbò censori, gerarchie delle chiese, parlamentari conservatori, a volte le stesse case di produzione e anche i critici (come Alexander Walker, che definì «mostruosamente indecente» Donne in amore, o il progressista Di Giammatteo)? Omaggiare Ejzenstein e irridere al filone 007 (Un cervello da un miliardo di dollari, 1967, con Michael Caine); il rock, che salvò la vita degli Who (Tommy, 1975, il suo più grande successo commerciale, dall’omonima opera teatrale); Twiggy come sex symbol (nell’omaggio al musical hollywoodiano The Boy Friend, 1971); descrivere le famiglie come prelibate macchine della tortura (sempre); che i suoi eroi decadenti e simbolisti fossero pionieri della modernità: dopo Elgar, Delius, Prokofiev, Bartok, Debussy, Isadora Duncan e Richard Strauss, messi a fuoco in prestigiosi e controversi film televisivi, Russell liberò il genere biografico-libertario da ogni vizio didascalico con Tchaikovsky (altro classico gay L’altra faccia dell’amore, con Richard Chamberlein), Listz (con un’altra rock star, Roger Daltrey), lo scultore Henri Gaudier-Brzeska, Mahler, Pete Townsend, Valentino, Mary Shelley e Lord Byron. Ma in realtà disturbavano molto di più, all’epoca, i bombardamenti nel sud est asiatico, il piombo contro gli irlandesi cattolici, le stragi di stato, la miseria dell’ambiente studentesco, l’intolleranza, la repressione e la deviazione della sessualità consacrata anche dalle chiese cristiane… «Se Dio vuole che tu soffra devi desiderare di soffrire, e accettare la sofferenza con gioia» proclama masochista e estasiata la secentesca madre Giovanna degli Angeli (Vanessa Redgrave) in I diavoli (1971), dalla ricostruzione storica di Aldous Huxley, progenitore del «filone conventuale» (le novizie come la new fish del genere sadico-carcerario). Il film fu sequestrato in Italia con l’accusa di vilipendio alla religione e già la copia circolante era stata espurgata, per volontà della Wb, di parecchie sequenze scomode tra cui la masturbazione collettiva delle suore e la profanazione di un Cristo in croce. Russell proponeva, con una potenza e una inventiva visionaria che ancora turba, una lettura esplicitamente politica, smitizzante, cioé anarchica, dell’episodio storico centrato sulle visioni erotico-cristologiche della badessa di Loudon (nella sua dossolvenza incrociata il volto e il corpo dell’uomo desiderato, padre Grandier – ancora una volta Oliver Reed – diventano quelli di Cristo), perfettamente strumentalizzata dal più cinico e opportunista dei cardinali, Richelieu. Proiettato a Venezia il film divise i cattolici. I più teppisti aggredirono Rondi (direttore della Mostra) e il patriarca di Venezia Albino Luciani, poi papa effimero. Giovanni Raboni, critico dell’Avvenire fu licenziato dopo averlo recensito positivamente. Ma nel marzo 2012, 42 anni dopo la sua realizzazione, tornerà nelle sale (anche italiane?) in versione integrale. Ci sono anche le nostre beatificazioni.
Anche le regie liriche di Russell non scherzavano: quella Madame Butterfly ambientata in un bordello nei giorni di Hiroshima, la Mimì che muore di overdose in uno squallido scantinato; «nessun dorma» dalla Turandot che nel film collettivo Aria (1988) accompagna la morte di una donna il cui corpo ferito è tutto ricoperto di gioielli… In tutti gli altri film realizzati dal 1972 al 1990, meno shocking nonostante l’utilizzo della tecnologie audiovisive più avanzata (dal dolby in poi) che lo estasiavano, e cioé Messia selvaggio, Mahler-La perdizione, Listzomania, Stati di allucinazione (girato a Hollywood, da Paddy Chayefsky, l’esordio di William Hurt), China blu (un duetto mozzafiato sadomaso tra il prete Anthony Perkins e la double-body Kathleen Turner), Ghotic (sulla notte in cui i poeti romantici inventarono Frankenstein e il suo mostro ammazzacattivi), L’ultima Salomé (alla presenza di Oscar Wilde) e Puttana (con Theresa Russell al massimo della forma) irritava il fatto che lui (e Pechinpah, Kubrick, Bertolucci…) sdoganava sempre al grande pubblico e socializzava pulsioni di vita, ciò che gli uffici censori e i moralisti tutti volevano ben imprigionare dentro il circuito porno dei «degenerati decerebrati». Peccato che iperviolenza, sesso sublimato e gusto splatter del sangue, retrocessi a pulsione di morte, facessero ormai parte stabile del nostro quotidiano menù televisivo, offerti per terrorizzare e reprimere dai servizi pubblici, più compiacenti e avidi che critici. Ovvio che il decennio patriarcale della Thatcher – che infarcì di decine di zelanti impiegati in più gli uffici censori di sua maestà e impose drammi storici corrotti in costumi filologicamente corretti – gli spezzò le gambe. Erano gli anni (’86-’92) in cui su Henry pioggia di sangue si concentrò l’invettiva della destra sessuofobica (che in Italia sedusse perfino la sinistra intellettuale). Non credo che la Lady di ferro condividesse l’odio viscerale di Russell per i miti del XX secolo, come il liberalismo, il razzismo, la xenofobia, la sessuofobia, il terrorismo di stato e il colonialismo, e comprendesse l’umorismo che era già alla Jacques Tati all’esordio, nel 1963, French Dressing, un fiasco e nel suo ultimo lungo, il documentario su Uri Geller Mindbender (1998), che hanno condito per 15 anni le sue lezioni di cinema, il corto A Kitten For Hitler e il dramma teatrale Mindgame, off Broadway.
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