No alla banda armata Assolte le «nuove Br»

Bomba alla Folgore, 2 condanne per cospirazione

Bomba alla Folgore, 2 condanne per cospirazione

ROMA — Secondo l’accusa erano gli eredi delle Brigate rosse, quelli che si proponevano di rilanciare la lotta armata sotto la vecchia sigla comparsa in Italia giusto quarant’anni fa. Avevano a disposizione pistole e munizioni «e pensate a quante persone avrebbero potuto uccidere, quanti attentati potevano fare», ha ammonito ancora ieri il pubblico ministero Luca Tescaroli, rivolgendosi ai giudici che stavano per entrare in camera di consiglio. Ma loro, i giudici della prima corte d’assise di Roma, hanno detto di no. Il gruppo di presunti neo-brigatisti, sospetti epigoni della stagione del piombo arrestati a giugno del 2009, non sono una banda armata né un’associazione sovversiva. E dunque sono stati assolti da quei reati, tra lo stupore dei pm e la gioia dei loro amici venuti ad assistere alla lettura della sentenza.
Tre condanne in verità ci sono state: due per un attentato dinamitardo a una caserma dei paracadutisti della Folgore a Livorno, avvenuto nel settembre 2006, rivendicato da un volantino firmato proprio «Per il comunismo Brigate rosse», ma i giudici hanno derubricato l’accusa: da banda armata all’inusuale «cospirazione politica mediante accordo». Quella fu dunque un’azione di matrice politica, ma non di un gruppo strutturato (forse anche per il troppo esiguo numero dei partecipanti) come dovrebbero essere le nuove Br. E battezzarsi con quel nome, evidentemente, non è sufficiente.
Per la bomba artigianale di Livorno sono stati condannati il genovese Gianfranco Zoja a otto anni e mezzo di carcere e Massimo Riccardo Porcile a sette e mezzo; per loro l’accusa aveva chiesto 15 anni. Un altro imputato per quell’attentato, il romano Luigi Fallico, è morto in cella nel maggio scorso, e dunque il procedimento a suo carico s’è interrotto. Il terzo condannato — non per la bomba contro la Folgore, bensì per detenzione di armi — è Bernardino Vincenzi: quattro anni e mezzo a fronte dei dodici e otto mesi chiesti dai pubblici ministeri.
Tutto il resto non c’era, ha sentenziato la corte d’Assise, mandando assolti gli altri tre imputati: l’ultrasessantenne Bruno Bellomonte, che ha ascoltato la lettura del verdetto dalla gabbia riservata ai detenuti, e i quarantenni a piede libero Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, scarcerati un anno fa dalla corte di Cassazione che non aveva ritenuto sufficienti gli indizi a loro carico. Ciò nonostante i pm avevano chiesto e ottenuto il processo anche per loro, sollecitando una condanna a sei anni di prigione. Niente. Restano a casa loro, innocenti secondo il giudizio di primo grado.
Finisce così — in attesa del prevedibile appello — quello che probabilmente è l’ultimo processo a carico dei discepoli del terrorismo italiano, o presunti tali. L’ultimo in cui è stata evocata la sigla che ha insanguinato il Paese tra gli anni settanta e Ottanta, e poi riesumata tra il 1999 e il 2003 dagli assassini dei professori D’Antona e Biagi, e del poliziotto Emanuele Petri. Dopo l’indagine su quel gruppo, la polizia e i carabinieri hanno continuato a scandagliare gli ambienti dell’estremismo, per estirpare le ultime possibili propaggini di lotta armata, anche solo ipotetiche, o in nuce. Arrivarono così gli arresti dei sospetti aderenti a questo gruppo fatto di persone di età e città differente (e anche questo è diventato un indizio a carico) che s’incontravano in date e luoghi prestabiliti, con modalità ambigue, e quando si telefonavano sembravano parlare in codice, usando nomi che potevano essere di copertura. «Perché non si riunivano e non parlavano alla luce del sole come tutti?» ha chiesto l’altro pm Erminio Amelio, fornendo la sua risposta: «Per nascondere l’associazione sovversiva».
I giudici l’hanno pensata diversamente. I motivi saranno noti fra tre mesi, e bisognerà capire come mai un manipolo di attivisti che fa esplodere un ordigno davanti a una caserma firmandosi «per il comunismo Brigate rosse» non è considerato una banda armata. Intanto si può dire che hanno prevalso le tesi degli avvocati Caterina Calia, Flavio Rossi Albertini, Francesco Romeo e degli altri difensori degli imputati. «C’erano indizi per giustificare un’indagine, ma non c’è la prova di un’associazione sovversiva», hanno sostenuto spiegando che non basta parlare di insurrezione e lotta armata per essere condannati. Così ha ritenuto anche la corte d’assise, che non s’è fatta influenzare dal cognome famoso e suggestivo di uno degli imputati: Manolo Morlacchi, figlio di Piero Morlacchi, tra i fondatori delle Brigate rosse, arrestato e condannato negli anni Settanta, morto alcuni anni fa. Sulla storia di suo padre e della sua numerosa famiglia comunista Morlacchi jr ha scritto un libro, La fuga in avanti, e le parole pronunciate a una delle presentazioni pubbliche di quel volume sono state portate dai pm come elementi di prova della sua colpevolezza. I giudici le hanno ascoltate in aula, non sono servite nemmeno quelle.

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