NUDI, CRUDI E MOLTO RUDI QUANDO LA CLASSE ERA OPERAIA

Esce una raccolta di storici scritti e saggi di Asor Rosa dal titolo “Le armi della critica”.  Questi testi ci riportano ad altri confronti culturali. Inimmaginabili oggi, in un’epoca in cui la rimozione del conflitto sociale si accompagna al ristagno dell’economia 

Esce una raccolta di storici scritti e saggi di Asor Rosa dal titolo “Le armi della critica”.  Questi testi ci riportano ad altri confronti culturali. Inimmaginabili oggi, in un’epoca in cui la rimozione del conflitto sociale si accompagna al ristagno dell’economia 

Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli “anni Sessanta”, quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua “tradizione”, compiendo “la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi”. Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso “operaista”), può scrivere oggi che “agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle”. Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro “integrato”, o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico “controllo borghese” del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
Si spiega così il tratto dominante – il vero fil rouge – che attraversa tutti i testi, con un´invadenza in qualche misura prepotente: il bisogno ossessivo di smarcarsi. L´ansia della secessione morale e culturale, della fuoriuscita da ogni condizione di continuità e di contiguità con un esistente considerato già perduto, spinta fino alla teorizzazione del “negativo” e all´abiura di ogni parentela anche con i più prossimi, con i Calvino e i Fortini, con la neo-avanguardia e la cultura antifascista e resistenziale, in una furia di distanziamento che assomiglia a un “si salvi chi può” perché tutto ormai, di quella cultura, rischia di transitare nell´ordine di un discorso che è ordine produttivo, razionalità di sistema, integrazione e alienazione.
Lungo questa traiettoria c´è l´incontro con la “classe operaia”, intesa nella sua materialità selvaggia. Non la rappresentazione iconica della tradizione riformista, non il soggetto togliattianamente destinato a “raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia”, portatore di un universalismo umanistico, ma la “rude razza pagana”. O meglio il suo “punto di vista” separato, “particolaristico”, proprio di un´alterità assoluta, non integrabile, in forza della sua negazione del lavoro, e per questa ragione possibile riferimento per chi intendesse porsi fuori e contro: vale a dire per quell´intellettualità disponibile a tagliare i ponti con l´universalismo della propria cultura. E disponibile a pagarne per intero il prezzo: a farsi a sua volta “particolarità”, nel rogo di tutti i suoi valori culturali.
Nasce di qui, da questo incontro nell´esodo, l´idea, del tutto originale, della necessità di una rivoluzione operaia pur in assenza di una rivoluzione democratica. Anzi, possibile proprio per quell´assenza. Un´idea capace di fare molta strada, assorbendo nel proprio percorso forme di pensiero eterogenee (dal Marx dei Grundrisse al Leopardi e al Nietzsche dell´illuminismo negativo, tutti allineati sulla linea dell´irriducibilità al dispotismo delle “cose”), per giungere infine a un duro contrasto con l´intera cultura democratica e progressista della generazione immediatamente precedente (strano destino per chi, sulle orme di Saba, auspicava per il proprio Paese l´abbandono della cattiva pratica “fratricida” in favore del più maturo “parricidio” dei popoli realmente rivoluzionari).
Su quell´idea si è strutturato uno dei pochi “paradigmi culturali” degni di questo nome nel secondo dopoguerra. Una “cultura” in grado di tenere il campo nel deserto culturale del tardo novecento, perché radicata davvero nella forza della vita. E tuttavia, nel contempo, testimone di un fallimento. Destinata – col suo soggetto sociale di riferimento – alla caduta esattamente come le eroiche personalità borghesi descritte nel magistrale saggio su Thomas Mann: uccise dalla stessa forza vitale che le animava. Dalla ferocia del proprio sguardo libero sull´esistente.

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